Bluvertigo: Entrevista del 01/06/1997

Publicado el: 02/02/2008


Bluvertigo: Il Nucleo sta davvero nel mezzo?

"Io faccio la musica che vorrei sentire da altri. Ho un ideale di musica, un ideale estetico, formale e sostanziale, che non è politico e sociologico. Non capisco il punk per quel tipo di attitudine antiartistica e anche se vedo un senso negli esperimenti dadaisti e li apprezzo, credo che dopo aver negato l’arte si può solo ricominciare. Evita di negarla, non perdere tempo...Ricomincia direttamente da una base...". Così parlò Marco "Morgan" Castoldi, bassista, cantante e autore dei Bluvertigo, gruppo estremamente interessante giunto al secondo album con Metallo non metallo, disco che ha saputo dividere nettamente la critica nostrana. E perché una via di mezzo non esista nel giudicare ciò che Castoldi e soci sanno produrre (basti riascoltare l’ottimo Acidi e basi di due anni fa) è facile capirlo se provate a intrattenere una discussione con il vulcanico e divertente Morgan. E per quanto ognuno abbia il diritto di pensare ciò che crede, quello che i Bluvertigo stanno facendo oggi è comunque il frutto di talento, volontà, visione e di una conoscenza che ha ben pochi termini di paragone nella musica italiana. Per questo alla fine, ne sono certo, il loro nome finirà per muovere un mercato decisamente superiore a quello nel quale si sono per forza di cose mossi sino a oggi.

D. Sapienza: Perché secondo te in Italia, per un musicista italiano, sino a oggi è molto più facile trovare consensi per i testi che per una reale capacità musicale ?

Morgan: Credo che questo problema legato al rapporto testi e musiche forse lo dobbiamo ai nostri splendidi cantautori, che dovevano avere testi importanti per far capire che quella era la loro ricerca finendo così per trascurare, volenti o nolenti, l’aspetto musicale. Tutti sanno che a Guccini interessano più i testi della musica e tutti i nomi che hanno reso importante la musica italiana non hanno avuto altrettanto riguardo per la parte compositiva. Oggi è diverso, finalmente il rock che si fa in Italia dà importanza ai testi ma anche e soprattutto alla musica.

E tu da cosa hai iniziato? Perché hai scelto questa strada?

Essendo un figlio non cercato, i miei da un lato mi hanno dato tanti vizi ma dall’altro mi hanno trascurato cercando di trovare qualcosa di sostitutivo; spesso mi ritrovavo a casa, sin da quando ero piccolissimo, con un mangiadischi e dei 45 giri. Ballavo, mettevo dischi e ascoltavo mia madre che suonava il piano. Ecco perché non ricordo di aver mai iniziato: in pratica ho sempre suonato, ho sempre avuto una propensione al ballo, all’intrattenimento dei parenti e alla realizzazione di spettacolini casalinghi. A otto anni cercarono di farmi studiare chitarra ma a parte il fatto che ero mancino, per me la musica era mettere dischi, ascoltare e ballare, dunque l’esperimento fallì. Poi cominciai ad ascoltare il pop, il rock, Bob Marley, Dire Straits, Beatles, tutto quello che girava in casa e che piaceva a mio padre. A un certo punto manifestai il desiderio di avere un sintetizzatore, così quando ottenni una tastiera elettronica, un MK 900, sperimentai gli accordi tipici della musica occidentale, quelli de La Bamba e Twist and Shout. Studiando armonia scoprii che queste funzioni fondamentali della musica si possono ricondurre anche a Chopin, per cui è una cosa insita nella cultura dell’uomo occidentale. Tentando di fare delle cose mie facevo una sintesi di quello che sentivo, per cui mi piacevano solo quegli accordi: DO FA e SOL e il resto per me erano solo variazioni sul tema (ride). Poi scoprii il LA minore, una nota triste e la mia ottica cambiò completamente. Da ragazzino, ascoltando Wild Boys dei Duran Duran, scoprii la modulazione, cioè il passaggio che esiste tra due momenti diversi di una canzone. Quando afferrai il concetto di tonalità il resto venne da solo. Iniziai a scrivere canzoni mie in inglese e lo feci sino al 1991 circa. Anche se solo di recente ho davvero capito il senso dell’armonia, già allora avevo intuito che il centro di tutto stava proprio nel saper inquadrare una canzone armonicamente.

Credo che nella musica dei Bluvertigo si capisca che tu sei prima un musicista e poi un cantante. Tu come ti vedi?

E’ vero, io canto per necessità visto che le cose che scrivo sono talmente personali e egocentriche da non avere credibilità se interpretate da altri. Non è che io canti cose particolarmente difficili, anzi devo dire che non c’è molta estensione e che spesso declamo i miei testi per dargli una forza anche ironica. Mi dicono che i testi sono arroganti ma per me non lo sono: Nanni Moretti sta sulle palle a tanta gente per un fatto epidermico, perché sembra dittatoriale. Se però vai a chiedere a uno il perché, non te lo sa dire razionalmente. Mi dicono che parlo troppo di me ma in realtà nei miei testi c’è solo tanta voglia di conoscermi.

Nei dischi ci sono parecchi richiami all’adolescenza: dai tre giorni di Fuori dal tempo alla ribellione verso i valori preconfezionati della famiglia, della religione e della scuola di Salvaluomo che c’era su Acidi e basi. Ma c’è anche dell’altro, il senso dei rapporti umani in L.S.D. e la ricerca di qualcosa di più alto di Altre forme di vita e Il nucleo. Cosa vai cercando?

Prima di morire, devo sapere chi sono, vorrei capire cosa ci faccio qui. Devo conoscermi e per farlo utilizzo le forme nelle quali mi esprimo meglio. Di questo senso intellettuale da dare alla vita devo anche ringraziare i miei genitori, due persone stimolanti che mi hanno sempre abituato a non dare niente per scontato e a mettere tutto in discussione prima di accettarlo. Da loro ho imparato ad amare i contrasti e le cose forti, belle e per questo anche il cinema mi è sempre piaciuto. Il primo film che mi folgorò fu La donna che visse due volte di Hitchcock.

Molte tue canzoni sembrano essere repliche a qualcosa, personaggi che tu incarni e utilizzi per rispondere: prima sei L’eretico e dopo sei quello di Vivosunamela. Poi eccoti pronto a parlare di cose più filosofiche in (Le arti dei) miscugli. Come ti muovi tra gli estremi?

C’è un conflitto che non vedo ancora chiaramente. Quando è morto mio padre avevo sedici anni. In quel momento c’è stato un grande flusso di vitalità: sotto il profilo psicanalitico, e questo c’è in Troppe emozioni, il senso di colpa viene sentito come una liberazione. In ogni cosa c’è del bene e del male. Io ho cercato di trarre da questo avvenimento un motivo in più per vivere e di trovare questa motivazione nella mia musica. Acidi e basi, come album rappresenta il conflitto, l’adolescenza, l’amore. Mi sembrava evocativo prendere termini chimici così evocativi e metterli in un altro contesto per cui scelsi quel titolo per riassumere quel periodo.

Che importanza dai all’immagine visto che le vostre foto sembrano voler comunicare qualcosa di preciso?

I personaggi che hanno sfruttato bene l’immagine di se stessi mi interessano molto, sono affascinanti e mi permettono più facilmente di andare verso di loro perché sono come stelle che luccicano, le guardi. Farsi notare, secondo me, è una cosa positiva. Apprezzo le persone che si fanno notare e mi piacciono più di quelle che non lo fanno perché "non amo chi tace e acconsente", come dico in Fuori dal tempo. Se vuoi fare uno sforzo verso l’esterno lo puoi fare con la parola, con un vestito, con un videoclip. Ecco perché mi fa incazzare la retorica del cantante che non ha l’immagine, è un concetto sorpassato. Bruce Springsteen in maglietta e jeans era la stessa identica cosa dei Duran Duran pettinati bene, andava solo capito; si trattava di due sforzi diversi ma il senso era lo stesso. L’immagine è importante e va valorizzata, deve rispecchiare quello che uno sente e che ha voglia di far passare di se stesso.

Dici di voler fare la musica che gli altri non fanno e che tu vorresti invece ascoltare. Come spieghi questa idea comune a molti artisti?

Mi piace David Bowie e mi piacciono i Beatles ma nessuno fa la musica che mi immagino, perché capisco che c’è, che ci deve essere, ancora un margine, una potenzialità; solo questo mi permette di andare avanti e in genere quello che mi piace dei musicisti che amo è quello che potrebbero fare. Di Bowie mi piace che lui, essendo l’artista che è, forse con Ashes To Ashes si avvicina all’ideale di ciò che potrebbe essere e forse non lo farà mai, pur avvicinandosi. Ovviamente lo stesso discorso vale per me, forse mi avvicinerò a quello che voglio fare ma non raggiungerò mai l’ideale che sento in testa.

Come inquadri due dischi così diversi come Acidi e basi e Metallo non metallo rispetto alle musiche che ti immagini?

Molte volte mi soddisfano. Il primo è un po’ più frenetico e acido, il suono è più pulito perché sono più giovane e conosco meno la sporcizia, sono meno corrotto, forse più puro da un certo punto di vista. Metallo non metallo è il disco del distacco, del mettersi in discussione. Vedi, credo che molti coetanei siano troppo forsennati e dunque ci mettono dieci dischi per scremare e arrivare a compattare un messaggio musicale, io invece con i Bluvertigo non mi sento così. Certo, con questo disco c’è questo dubbio, l’idea che forse ci manca qualcosa ma va bene lo stesso, perché è il disco dell’insicurezza, della perdita di coscienza. L’eclettismo dell’album per me è un fatto positivo, è una cosa che predico comunque assieme all’istrionismo. Forse potrà spaventare ma il linguaggio è importante, ma il vero problema è formale perché i contenuti sono monolitici. Prova a pensare a Blob, alla presa di posizione delle immagini montate in quel modo; ha una connotazione fortemente idealistica, propone un’idea e porta avanti dei contenuti sfruttando opere d’arte altrui però non ha una linea. Accoppia il film di Hitchcock fatto ieri con il Tg di stamattina per dire una cosa: ecco, a me interessa la cosa che sta dietro, non mi fermo e anzi mi diverto perché c’è Hitchock e poi il Tg e quindi c’è varietà, mi diverte. Del resto mi piace la pizza capricciosa (ride), mi piace la molteplicità. Dopo aver finito il disco mi sono accorto che (L’arte dei) miscugli è in realtà il manifesto di tutto questo. Gli altri pezzi sono come dei cameo attorno a questo nucleo. Siccome è da poco che sto attento all’aspetto letterario, visto che prima scrivevo in inglese, mi sono reso conto che a parte i casi di Battisti e Battiato, difficilmente l’italiano suona davvero bene su certa musica pop e rock. Quel suono è tradizionalmente e forse per qualche motivo astrale fatto per l’inglese, la chitarra elettrica si sposa meglio con quella lingua. Siccome cantare in italiano è un po’ goffo dobbiamo cercare di farlo al meglio, per cui cerco di divertirmi con l’italiano visto che non riesco a essere completamente convinto. L’ironia nasce da lì. Per questo mi piace Battiato, per il suo modo di concepire la lingua italiana su una base pop che è unico al mondo e io mi sento di appartenere a quella scuola.