Marcello Murru: Intervista del 13/01/2011

Pubblicato il: 14/01/2011


Marcello Murru, romano d’adozione ma nativo di Arbatax può definirsi a tutti gli effetti, un vero poeta del nostro tempo che, come cantava nel suo penultimo disco “Bonora”, è un “tempo di virgole, difficile mettere un punto”. Ora, dopo sei anni di pausa, è finalmente tornato con un nuovo interessantissimo lavoro dal titolo “La mia vita galleggia su un petalo di giglio”. L’ho avvicinato per approfondire le tematiche affrontate nel disco ed ecco cosa è emerso da questo piacevolissimo dialogo.

Partiamo dal titolo del disco “La mia vita galleggia su un petalo di giglio”, com’è nato?

Il titolo è una cosa non mia, non scritta da me, è una frase che ho quasi rubato a un’intervista fatta da Giuseppe Videtti (Repubblica) a Tom Waits parecchi anni fa in cui il musicista americano aveva detto un qualcosa di simile, è l’unico verso del disco che non ho scritto io, però mi piaceva questa idea della vita che galleggia.

Un’espressione molto autobiografica o no?

Me la sono sentita molto autobiografica anche rispetto a quella che è la mia storia e adatta all’album che ho scritto.

Secondo me sintetizza bene il contenuto dell’album.

Si, anche se è difficile sintetizzare in una frase un album che, come hanno detto molti, è un lavoro sull’amore ma anche sulle mille sfaccettature dell’amore con tutte le possibili varianti, la perdita, l’abbandono, la sparizione, il ritorno, ho voluto cercare care di mettermi un po’ a nudo, fare i conti con me stesso.

Una sorta di bilancio?

Mah, è sempre molto difficile per me parlare di bilanci, però sono uno che si ridiscute e questo tema l’avevo già sfiorato altre volte, non credo comunque vi siano autori che non abbiamo mai parlato d’amore, più che altro vi è la mia inquietudine nei confronti di un discorso amoroso.

Può essere considerato un concept album sull’amore o è una forzatura?

Quando l’ho scritto, non avevo pensato a questo, la prima canzone che ho scritto di questo lavoro è “Facile di questi tempi”, ma in quei giorni vivevo un momento molto personale e molto doloroso della mia vita ossia la perdita di una persona a me tanto cara, non sto a girarci attorno, era morta mia madre da pochissimo, quindi non avevo pensato a un disco sull’amore, poi riflettendo sulla mia situazione personale e sull’esperienza vissuta all’interno della mia famiglia, ho voluto un po’ ripercorrere il passato, mia madre raccontava molto la sua storia che aveva avuto con mio padre e volevo quasi ricostruire alcune sfaccettature che erano appartenute alla loro storia, una lunga storia d’amore con tutte le guerre che accadevano, mio padre che partiva per le guerre d’Africa e lei che lo aspettava. Sono partito un po’ da un’analisi di quel tipo per arrivare a tutto il resto. Comunque questo disco appoggia le sue radici su una mancanza, su una perdita di una persona cara come può essere appunto una madre per un figlio.

Il tema dell’abbandono o della perdita ricorre spesso nel disco anche all’interno della dinamica del rapporto uomo-donna.

Si, ho cercato di entrare un po’ nelle varie sfaccettature, ovviamente dando la mia interpretazione, sono un buon ascoltatore anche di storie altrui, credo che siamo tutti attorniati da amici che prima o poi ci raccontano l’inizio di una storia o la crisi di un rapporto, non è un tempo facile per i rapporti amorosi questo, ho cercato di farne tesoro realizzando questo disco sull’amore.

Amore che può essere anche quello per la propria terra, come in “Il mio sud”.

Ah si certo, in effetti, ci sono brani che affrontano l’amore in maniera più ampia, mi piace pensare come un tuo collega ha definito questo disco dicendo che potrebbe essere il mio “Frammenti su un discorso amoroso”, discorso che quindi implica anche il rapporto con la propria terra, con il mio sud, ma anche con tutto il sud del mondo, naturalmente parlo in prima persona come uomo del sud, c’è molto della mia Sardegna, ma il discorso è più ampio.

A me piace molto l’immagine che hai usato “Il mio sud è a nord di tutto”.

(Ride) Si quella è una rivendicazione direi, quasi paradossalmente politica, di questi tempi.

Sono rimasto molto affascinato dall’atmosfera di questa canzone, un po’ come mi era capitato con “Blu” canzone presente nel tuo precedente disco “Bonora”.

“Blu” in effetti, è un brano che piace molto anche a me, fu la prima canzone che scrissi dopo il mio intervento (trapianto di fegato). Mi ricordo ancora oggi, ero in studio e registravo un album con Lilli Greco, il quale era rimasto molto impressionato dal mio modo di scrivere e decise di produrre quel disco che nacque con una parte di canzoni scritte prima dell’intervento e una parte dopo.

Altra canzone del tuo nuovo disco piena di fascino è “Lontano” in cui canti “Mi piace toccare le parole / Prima di suggerirtele” che secondo me raccoglie un po’ il tuo stile poetico e altri versi come “Ma il tempo raccoglie conchiglie e rami secchi da ardere”.

Si ritorna sempre un po’ il mare nella mia vita. (ride)

C’è questo tempo dettato dalla natura che scorre inesorabile.

Si si, questo che dici è corretto, anche se per me è sempre molto difficile dare delle spiegazioni a quello che scrivo, io spero sempre di incontrare delle persone che mi spieghino le cose che scrivo, mi sorprendono molto gli artisti che cercano sempre di spiegare quello che hanno scritto, per me non è così semplice, io credo che la miglior spiegazione sia quella che può dare il pubblico che ascolta, la completezza di una canzone si raggiunge solamente quando l’ascoltatore la farà sua. Io scrivo all’alba, in una sorta di dormiveglia, non scrivo mai in altri orari. Scrivo nelle ore di stanca, mi piace camminare a lungo stancarmi tanto, in quei momenti allora mi arrivano le cose che ritengo più interessanti. Per me le canzoni non dovrebbero mai essere definitive come testi, mi sono trovato qualche volta a fare dei concerti in cui sentivo quasi la necessità di cambiare le parole e non perché non ricordassi il testo, ma perché le storie in qualche modo crescono e la fantasia magari le porta lontano da quello che era stato il punto di partenza e questo mi capita a volte proprio quando suono dal vivo.

Io purtroppo non ho mai avuto la fortuna di assistere ad un tuo concerto, immagino quindi che anche lì non ami spiegare al pubblico le tue canzoni.

In effetti, parlo pochissimo, non dico quasi niente, com’è stato ad esempio nel concerto che ho appena fatto all’Auditorium di Roma, però è anche vero che la scaletta di questo nuovo spettacolo è una specie di viaggio che io percorro a mio modo. Probabilmente è anche la mia esperienza teatrale, vengo da anni di avanguardia e non so più se il mio è un cantare o un raccontare, però mi piace cercare di portare il pubblico in viaggio con me lungo un percorso emotivo, non amo però spiegare le canzoni per non bruciarne il mistero, sarà poi il pubblico a rispondere con quel tanto di emotività necessaria a se stesso e anche alla canzone. Io questa risposta comunque l’avverto sempre quando faccio i miei concerti.

Ci sono poi canzoni che più di altre lasciano spazio all’interpretazione, mi viene in mente “Danzatrici ioniche”.

Beh è in corso una sorta di dibattito su questa canzone, tutti mi chiedono di questo brano, che per altro è uno dei brani che amo moltissimo tra quelli di questo lavoro, credo di capire che è anche il brano più misterioso.

In effetti, è forse il brano più bello del disco proprio perché resta misterioso, oserei dire quasi criptico.

E’ l’unica cosa che solitamente racconto perché capisco anche che ci sono molte immagini che si sovrappongono, quindi credo che tutto questo mistero andrebbe un po’ svelato, c’è molta prostituzione in questo brano. Ero andato a trovare un’amica in una zona particolare di Roma che è vicina al Verano, il cimitero monumentale di Roma e all’uscita da casa sua mi ero trovato in un mondo quasi felliniano dove c’erano decine e decine di ragazze, di travestiti e di macchine che giravano attorno. Per raggiungere il punto in cui avrei preso l’autobus, dovetti percorrere quasi un chilometro di strada e durante questo cammino rimasi molto suggestionato da quello che vedevo. Ho descritto semplicemente quello che ho visto e quello che ho sentito, però ne ho fatto una specie di Roma un po’ felliniana appunto. Sono sempre stato molto affascinato dal cinema, che entra molto nelle mie canzoni, avevo scritto ad esempio “Testaccio” (presente in “Arbatax”) e vi avevo introdotto l’attrice Silvana Mangano. Anche in questo disco c’è un omaggio a Sergio Leone proprio all’apertura del disco quando canto “Buonasera sono tornato” che, in effetti, è una scena di Sergio Leone con Clint Eastwood dove c’è una scena in cui l’attore americano entra in un saloon e dice appunto “Buonasera sono tornato”. Quando sono arrivato a Roma, tanti anni fa, ho anche avuto occasione di incontrare qualcuno di questi grandi registi.

So che tra l’altro tu nasci artisticamente dal teatro grazie al regista Mario Ricci che ti scelse per il suo Majakowski.

Fu il primo spettacolo che io feci, praticamente arrivai a Roma, ero uno studente universitario, in quell’occasione accompagnai un’amica ad un provino e il regista era convinto che fossi un attore e mi disse “Finalmente ho trovato il mio Majakowski”, non avevo ancora capito se stesse scherzando o no, capii poi che non scherzava affatto e cercai di spiegargli che non ero un attore, ero uno studente, andavo all’università, ma egli disse “Io ho assolutamente bisogno di uno che abbia la tua fisicità, vedrai faremo un laboratorio di sei sette mesi e sarai pronto per entrare in scena”. Ero ancora studente e avevo pochi soldi, la sua proposta economica mi sembrò allettante e decisi di provare questa esperienza. Dopo sei sette mesi debuttò questo spettacolo su Majakowski e la stampa cominciò a parlarne. Feci così parte dell’avanguardia teatrale romana che alla fine degli anni settanta pullulava di centinaia di teatri off. Io interpretavo proprio Majakowski ed il regista decise di farmi radere i capelli ed è da allora che mi porto questa testa.

Tommaso Chiaretti in quell’occasione su le pagine del quotidiano "La Repubblica", ti definì “ribelle, scontroso, carattere difficile da decifrare, misterioso, snob, seducente", ti riconosci nelle sue parole di allora?

In quegli anni, che di questo evento ne parlasse Tommaso Chiaretti, uno dei più importanti critici italiani, era stupendo. Non so però se fossi proprio così, comunque il mio personaggio giocava un ruolo con quel tipo di caratteristiche, non dimentichiamo che avevo dovuto fare grossi sacrifici per entrare in quella parte, perché stavo interpretando il poeta della rivoluzione, anzi il massimo poeta della rivoluzione in Russia per cui mi trovavo addosso un peso enorme ed ero entrato talmente nella parte che anche certi atteggiamenti erano legati un po’ a quel personaggio, mentre nella vita sono sempre stato piuttosto timido. In merito ad una seconda edizione dello spettacolo proprio Chiaretti scrisse che c’era in me un che di snobistico ma mi è difficile riconoscermi in uno snob, diciamo che il ruolo richiedeva questo anche perché il Majakowski che io interpretavo, entrava nei salotti di Mosca e ne combinava di tutti i colori, si truccava, faceva cose molto strane, era molto eccentrico, la bellezza dei versi che scriveva, era anche accompagnata da un’eccentricità fisica. Io ero indubbiamente entrato molto nella parte anche perché, non essendo dotato di tecnica e non avendo studiato teatro, mi ero in parte inventato quel ruolo aiutato anche dal regista e giocando molto d’istinto. Mi ricordo però che lo spettacolo fu visto dai più grandi registi dell’epoca come Antonioni, Fellini, Lindsay Kemp con i quali mi ritrovai poi a fare anche dei provini, anche se non feci mai del cinema se non un film con Memè Perlini, qualche anno dopo, ma è storia passata stiamo tornando indietro di troppi anni.

E’ vero, torniamo allora alla tua ultima fatica, si può dire che stilisticamente assomiglia più ad “Arbatax” che non al tuo penultimo disco “Bonora”?

Si e no, nel senso che “Bonora”, che per altro è un lavoro che mi piace molto, è molto diverso dall’ultimo disco.

C’è però molta elettronica in "Bonora".

Si questo è vero

Mentre nell’ultimo lavoro tornano molto gli archi.

Si, è vero, gli archi li abbiamo voluti per sdrammatizzare alcune situazioni e li abbiamo concordati e dosati con Marco Sabiu per rendere meno carico il disco. In “Bonora” invece l’elettronica era un po’ più presente. Devo però dirti che in questo disco mi sono sentito molto più libero di decidere che in “Arbatax” e in “Bonora”. In “Arbatax”, che continuo ad amare, trovo però che ci fossero un po’ di forzature, Lilli Greco, in effetti, mi aveva spinto in zone un po’ troppo contiane, un po’ troppo Avion Travel, anche se è vero che vi suonavo gli Avion Travel. In questo nuovo lavoro ho voluto sentirmi più libero, senza forzature discografiche, non c’erano proprio discografici alle mie spalle quando ho registrato “La mia vita galleggia su un petalo di giglio”.

Ti sei sentito più Marcello Murru?

Si, esatto, mi sono sentito più Marcello Murru, libero di muovermi come ho voluto. Se potessi, anche se so che non è possibile, alcune cose dei due dischi citati le rifarei, anche se ci sono brani che continuo ad amare molto e seguito ad interpretare nei concerti.

A proposito di concerti seguirà un tour di presentazione?

Questo è un grande mistero (ride), credo però che alla luce del fatto che le cose si stanno muovendo bene e che voi giornalisti siete molto generosi con questo lavoro (sorride) allora credo che mi vedrò costretto, anzi con grande piacere penso questa primavera porterò il concerto un po’ in giro per l’Italia. Me lo chiedono un po’ da tutte le parti. In fondo sono stato fermo per tanto tempo non certo per snobismo ma perché quando fai una musica di un certo tipo, non è certo semplice portare in giro il tuo lavoro.

A proposito del concerto di Roma, ti sei esibito con la stessa formazione del disco?

No, non mi piace mai riprodurre fedelmente il disco, dei musicisti del disco avevo con me solo lo splendido Alessandro Gwiss e il chitarrista Riccardo Manzi abituale compagno dei miei live, poi c’erano contrabbasso e chitarre ma senza batteria, odio i batteristi … non è vero, scherzo ovviamente, però quando c’è di mezzo la parola a volte, i batteristi esagerano ed allora preferisco magari una formazione più atipica, senza batterista. Generalmente dipende molto da dove vado a suonare, dalle situazioni logistiche per cui le formazioni possono essere più o meno larghe, vedremo cosa ci riserverà questo “tour”…

Marcello Murru