Il teatro degli orrori
Il teatro degli orrori
Nell’era del sensazionalismo critico visivo, parlato, ma anche scritto, credevo esistesse comunque un limite alla critica preventiva. A quarant’anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini vorrei ricordare come fosse la ricerca della verità attraverso l’arte, il motore più profondo e sincero di tutta quanta la produzione del genio bolognese. Se fosse ancora vivo, oggi, probabilmente in virtù del suo senso di scissione (che lo affrancava da ogni ortodossia), sarebbe stato un intellettuale acuto nel pensiero, ma grezzo nei modi; violento e spietato nell’estetica del giudizio, ma tenero nei comportamenti e nei suoi ragionamenti. In poche parole, un uomo libero oggi come allora anche nell’era della comunicazione di massa.
Veniamo a noi. Il nuovo disco de Il Teatro degli Orrori è un ritorno alle origini, ma con lo sguardo ben fisso al presente. Messo in cuffia e in circolo la track list mentre correvo (una delle situazioni e sensazioni più belle per fruire musica insieme all’essere soli in una stanza o sotto un palco di un concerto) mi è parso subito chiaro che qui dentro la retorica c’entrasse davvero poco. Premetto che io stesso rifuggo dai mentori e dai capo popolo. Quei personaggi da avanspettacolo che imbeccano il loro pubblico sistematicamente; ma bisogna fare dei distinguo. Sempre Pasolini diceva che lui non era contro i partiti, quello era qualunquismo, ma aveva un approccio nei loro confronti di tipo anarchico intendendo forse sincero e svincolato da ogni tipo di subalternità culturale. Forse la genialità stava proprio in certe sue opere così grezze e approssimative da risultare surreali. Azioni anche intrinsecamente distanti da una “grammatica cinematografica” e da una calligrafia letteraria vigente, a loro volta espressioni naturali del conformismo benpensante. L’urgenza espressiva e la ricerca del significato mettevano in secondo piano (per non dire in discussione) anche quella che diremmo oggi, la forma. D’altronde non era un mistero che lui si considerasse un intellettuale prestato al sottoproletariato di borgata, quello genuinamente ignorante e poco incline agli ermetismi sofisticati di estrazione borghese.
Che c’entra tutto questo? Capovilla sembra dare molta enfasi (questo si) ai testi, con tale trasporto da stravolgere la ritmica e attorcigliare e sgrammaticare la musica intorno a questi. La sua operazione finisce per essere talmente eclatante da risultare appunto surreale. In realtà il disco, ascoltato per intero, mostra una vivacità e una freschezza davvero convincente, soprattutto perché non è difficile cogliere le novità stilistiche e l’arricchimento sonoro di una linea musicale che mette le radici nell’alternative power rock delle origini, ma con una varietà di sessioni ritmiche e di contaminazioni di genere per niente scontate. Impossibile non assaporare un nuovo gusto per le ambientazioni più raffinate ed eleganti di stampo free jazz, o gli inserti elettronici di alcuni arrangiamenti sconfinanti nella new wave di scuola Bluvertigo.
Comprendo pure come nel tentativo di decifrare la realtà a volte possa apparire labile la diversità che passa tra il mettere in scena un’opera di valore e un’opera kitsch. Mai però per un autore vergognarsi di esprimere il proprio pensiero, quando è frutto di un’operazione verità. Quella di Capovilla è una confessione in piena regola, sottoforma di sarcasmo da réclame. Ride Pierpaolo, ride spesso durante tutta la durata del disco, ma sempre con acuta riflessione e innata ironia. Ecco, sta qui la chiave di volta, la parola ironia! Non a caso in questo disco è da un Caparezza qualunque che il Teatro degli Orrori sembrano aver raccolto il linguaggio stilistico in termini di saturazione delle linee parlate abbinate all’intensità della performance.
Pierpaolo non solo fa un’operazione bibliografica inconscia di veri e propri miti della musica indie italiana come gli MGZ, i Massimo Volume, Freak Antoni e Vinicio Capossela; ma tra scatti morbosi, cupi o freddamente accorati diventa egli stesso attore e narratore. Vent’anni di storia musicale parcellizzata in tanti piccoli brani (che poi sono delle grandi storie come Genova), dove a colpire sono le tematiche affrontate. E poi c’è anche la poesia (di cui Capovilla stesso ne rifiuta l’apogeo con stizza), gli j’ accuse e la politica con una lirica dedicata al PD e al sonno profondo della sinistra. Ritmo indiavolato e adrenalinico fuoriesce sin dal brano di apertura in modo talmente repentino da lasciare con il fiato sospeso per parecchie tracce.
Nei testi, arriviamo al dunque, si parla di droghe, del successo come pura strumentalizzazione, di lavoro da un punto di vista sociale. Ma dopo la politica è l’immagine della bimba con il mitra in mano in Una donna a lasciare il segno. Uno scatto fotografico che ci parla indirettamente di una guerra dimenticata e per certi versi invisibile. Ancora psicofarmaci in Benzodiazepina e malattie mentali in Slint. Tutti temi scottanti messi sul piatto con cruda e lucida denuncia. Riuscita anche da un punto di vista prettamente musicale è Genova che ritorna sulle non mai abbastanza note vicende del G8. Chitarre tirate che inveiscono e si distorcono in uno spasmo incontrollato come fossero piegate dal dolore del ricordo. Sentimenti inconfessabili e Una giornata al sole sono la degna chiusura tra religione, amara gioia e un raggio di tenerezza dopo aver attraversato di corsa un tunnel lungo e buio come la nostra coscienza.
Il teatro degli orrori
Il teatro degli orrori
Genere: Noise , Rock , Elettronica
Brani:
- 1) Disinteressati e indifferenti
- 2) La paura
- 3) Lavorare stanca
- 4) Bellissima
- 5) Il lungo sonno
- 6) Una donna
- 7) Benzodiazepina
- 8) Genova
- 9) Cazzotti e suppliche
- 10) Slint
- 11) Sentimenti inconfessabili
- 12) Una giornata al sole
Note
Il quarto lavoro, omonimo, del Teatro degli Orrori è stato pubblicato dall'etichetta La Tempesta e distribuito dalla Universal il 2 ottobre 2015.