Intervista a Tommaso Labranca

Pubblicato il 24/03/2014 - Última actualización: 13/12/2016

Topics : Musica - Editoria underground - Letteratura - Costume e società

È da quasi vent’anni che seguo il lavoro di Tommaso Labranca, le cui pubblicazioni, giocando con vari elementi della cultura popolare, sanno sempre coinvolgere, divertire ed essere da spunto per riflessioni sull’umanità e sui nostri stessi comportamenti. Labranca è un personaggio a sé, non incasellabile in una facile definizione, molto attento e preciso nello studio dei fenomeni culturali o di costume di cui si interessa, talvolta snobbato da certo pubblico intellettualmente pigro, arroccato su preconcetti facili, che cerca solamente conferme alle proprie comode convinzioni.
Lo stile e gli scritti di Labranca mi piacciono perché sanno fornire qualcosa “di più”, qualcosa che vada oltre la banalità e la pigrizia di buona parte dei maître à penser contemporanei. Labranca fornisce infatti una visione moderna e profondamente colta senza essere né barboso, né snob, né accodarsi alle varie mode culturali, affrontando frequentemente temi “bassi” in modo “alto”.
Mi sono imbattuto nei suoi lavori per la prima volta attorno al 1996, i suoi lavori sono stati un punto di riferimento e hanno rappresentato lo stimolo fondamentale che mi ha portato a interessarmi di tutta una serie di fenomeni della cultura pop, che tutt’ora seguo e mi appassionano.
Ho voluto cogliere così l’occasione dell’uscita del nuovo libro Progetto Elvira. Dissezionando Il vedovo, stampato per la 20090, casa editrice recentemente fondata dallo stesso Tommaso assieme a Luca Rossi, per rivolgergli qualche domanda sulla sua lunga carriera di scrittore a autore, e sul volume in particolare, che ho da poco finito di leggere e che trovo uno dei più bei libri mai composti su di un’opera cinematografica: Il vedovo di Dino Risi con protagonisti Alberto Sordi, Franca Valeri e… la Torre Velasca di Milano!

F.C.N.: Ciao Tommaso, come sta il piccolo isolazionista?

T-La: Ciao. Il Piccolo Isolazionista sta bene. Tornerà presto, probabilmente a settembre, per parlare brevemente di un disco isolazionista scritto da un musicista isolazionista.

F.C.N.: Mi preme chiederti innanzitutto che fine ha fatto un personaggio al quale ero particolarmente affezionato: che ne è stato di Ansi Sæmur? Tornerà mai a suonare?

T-La: Purtroppo non ho notizie di Ansi. Sono ormai anni che non lo sento. Era venuto in Italia dove ha tenuto dei microconcerti in giro per Roma. Ci sono tracce video in giro in cui suona lo xilofono e canta a Fontana di Trevi e in Piazza Navona. Quella stessa sera è scomparso. Penso abiti da quelle parti. Di sicuro non è più tornato in Islanda.

F.C.N.: Partiamo dall’inizio: hai cominciato lavorando come traduttore e pubblicando una fanzine, Trashaware, come è avvenuto il passaggio all’editoria, ai primi libri pubblicati con la Castelvecchi?

T-La: In maniera abbastanza rapida. Ho sempre lavorato in campo editoriale. Il mio primo lavoro fu per una rivista di arredamento per uffici. Però fu molto utile perché mi permise di imparare il lavoro di redazione, anche se tutto quel sapere ora serve a ben poco. Chi usa più la composizione, le bozze, le strisciate di carta patinata da incollare sulle gabbie in cartoncino, le ciano? Più avanti, quando lavorai per un service che realizzava enciclopedie a fascicoli per la De Agostini, imparai a usare il Mac per impaginare. Realizzai così alcuni librini autoprodotti e i dieci numeri di TrashWare. Un mercoledì del 1994 spedii tutto a Castelvecchi, che era l’editore più cool del momento. Il giovedì Alberto mi rispose e pubblicammo Andy Warhol era un coatto. Da lì poi arrivò tutto il resto.

F.C.N.: Che cosa ti ha portato ad intraprendere la carriera di scrittore, autore e traduttore, cioè a esprimerti principalmente attraverso la scrittura?

T-La: Il fatto di aver sempre scritto, sin da piccolissimo. E, soprattutto, il fatto di non sapere fare altro. Non so suonare nessuno strumento musicale, non pratico alcuno sport, non sono in grado di disegnare. Scrivere è, apparentemente, l’attività meno complessa. Hai bisogno solo di una matita e di un foglio di carta. Forse per questo tutti pensano di poter pubblicare un romanzo. Ed è una attività che non necessita di maestri. O lo sai fare o chiudi. Le scuole di scrittura creativa servono solo a far vivere chi le gestisce.

F.C.N.: Quali sono i personaggi dello spettacolo, gli artisti, gli autori letterari che puoi considerare come tuoi riferimenti principali?

T-La: In disordine: Carlo Silva, Angelo Frattini, Adolfo Wildt, Piero Chiara, Dino Buzzati, Andy Warhol, Tom Wolfe, Gertrude Stein, Dino Risi.

F.C.N.: Tu sei molto legato alla città di Milano. Il personaggio di uno sketch poco noto di Franca Valeri si definisce in un modo che mi piace molto: “milanese di professione”. Ti definiresti anche tu così? Che cosa ami di più e che cosa ami di meno di questa città?

T-La: No. Io sono “milanese per hobby”. Sono nato a Milano e ho sempre vissuto qui. Però i miei genitori erano pugliesi, giunti a Milano nel 1959. Trovarono una casa a Porta Romana, allora quartiere popolare e non crogiuolo di etnofighetterie. E trovarono anche parecchi anziani milanesi che adottarono quella coppia di timidi sposini. Non tornarono più nel luogo di origine che io stesso non conosco. A volte qualcuno mi fa notare le mie origini, di cui però io non sento alcuna traccia. È proprio una mancanza di affettività, di interesse, di legami. Mi sento molto più legato all’Insubria dove ho passato i momenti migliori della mia infanzia e ai quali ripenso quotidianamente.
Di Milano amo il fatto che sia l’unica città che abbiamo in Italia, un posto ormai talmente liquido che non ha più dialetto, dove è più facile trovare un onigiri che un trancio di pizza. Per qualcuno potrà sembrare un elemento negativo, per me è il contrario. Anzi, quando vado in una città in cui ti parlano in dialetto anche nelle riunioni di lavoro, convinti che tutti li capiscano, mi viene voglia di alzarmi e andare via.
Non amo tutta quella marmaglia di ragazzotti che giungono qui dalle zone più depresse, si travestono da buffoni fashion (lo facessero a casa loro, li avrebbero già linciati) e iniziano a insultare la città che gli ospita.

F.C.N.: Io ho sempre pensato che il tuo trattare fenomeni popolari (quali la musica pop, la televisione, quella certa estetica da “zia”, film appartenenti alla commedia all’italiana, ecc.), serva da pretesto per parlare di altro, soprattutto di sociologia, dei comportamenti “di massa”, riuscendo a fotografare molto meglio di altri la società contemporanea. Mi sbaglio?

T-La: Forse sì. Cioè forse ti sbagli. Quando decido di parlare di un tema lo faccio perché mi interessa il tema in sé. Se ricorro a esempi tratti da quella che chiami la “società contemporanea” il più delle volte è solo per sottolineare una cosa: che nulla cambia, mai. Nonostante coloro che si credono più fighi di chi è venuto prima. Pensa a Matteo Renzi. Oppure coloro che rimpiangono un passato che invece era identico al presente.

F.C.N.: I tuoi primi libri trattavano di fenomenologia del trash. In seguito “trash” è diventata una parolina maledetta, spesso utilizzata da signorine con la puzza sotto il naso per classificare tutto quanto non fosse sufficientemente “colto” o “chic” come un qualcosa da evitare. Tutto questo è diventato irritante e irrispettoso nei confronti del soggetto, che spesso viene considerato sommariamente un prodotto di “serie B” anche quando in realtà non è affatto tale. Che cosa ne pensi di questo comportamento?

T-La: Nulla. Mi sto impartendo una disciplina che mira al totale disinteresse nei confronti degli altri.

F.C.N.: E che cosa ne pensi della “retromania”, cioè di quel fenomeno che negli ultimi due decenni ha caratterizzato a tutti i livelli molteplici ambiti culturali e artistici, e che porta a interessarsi quasi esclusivamente di fenomeni del passato, tralasciando quanto viene prodotto ai giorni nostri? Non trovi che qualche volta questa mania del “retro” porti a sopravvalutare (anche economicamente) fenomeni del passato che meriterebbero di rimanere nel vaso di Pandora nel quale sono stati relegati?

T-La: Se rispondessi a questa domanda dovrei coinvolgere anche te che spesso vivi all’epoca del View-Master! Comunque sarà il tema di un testo al quale sto lavorando. Ricordare è una buona cosa. E in verità vengono fatte cose nuove, solo che il pubblico medio non le recepisce o è troppo pigro per cercarle. Ciò che non sopporto è la confusione che i presunti “esperti di decenni” fanno quando parlano di passato. Quando leggo che “sei degli Anni 90 se… giocavi col Dolce Forno” porto la mano alla rivoltella.

F.C.N.: È capitato che tu sia stato al centro di polemiche (ad esempio durante la tua collaborazione con Film TV). In casi come questi a me è sempre parso che i lettori fraintendessero con troppa facilità quanto intendevi esprimere: tu indichi la luna e chi legge si ferma a polemizzare su com’è tagliata l’unghia del dito. Secondo te perché succede questo: ci sono lettori dalle capacità limitate o c’è dell’altro?

T-La: Succedeva anche ai tempi dei miei primi pseudoblog, verso il 2000. Con Film Tv è stato il trionfo dell’ottuso moralista. In quel caso si trattava di un pubblico abituato a leggere Fofi, personaggio che considero deleterio e persino pericoloso nel suo essere polveroso. Leggevano Fofi e sapevano che vi avrebbero trovato quella parola, quell’aggettivo, quella frase, quella presa di posizione. Solitamente si trattava di un pensiero predefinito secondo i canoni di certa sinistra retriva e antiprogressista. Adeguarsi ciecamente al fofianismo era per quel tipo di pubblico un modo per apparire intelligenti. Potevano anche non leggere l’articolo. Già sapevano che dentro c’era l’attacco ai reality, alla moda, al nord. Avendo un modo di pensare appena più svincolato dai diktat politici, scrivevo cose in cui aggettivi e prese di posizione non erano quelli previsti dal Codice dell’Intellettuale di Sinistra che Vive nella Verità. E partivano le offese. Il più delle volte chi mi attaccava non sapeva nemmeno leggere. Ovvero, era in grado di mettere una lettera dopo l’altra, ma non di capire il senso. Scrissi che essere vegetariani non significa essere buoni, al punto che Hitler era vegetariano. Un tizio mi contattò insultandomi perché avevo scritto che “i vegetariano sono nazisti”. Poveretto. Una volta invece raccontai che mi avevano rubato la bicicletta. Uno scrisse che era “una buona notizia”. Come vedi hanno esaurito ogni capacità dialettica e sono arrivati allo sberleffo d’asilo: “T’hanno rubato la bici! Cicca cicca!”
Io resto comunque assolutamente coerente. Mi occupo di stupidate, le scrivo e ne sono orgoglioso. Mi vergognerei di essere come Francesco Piccolo che da una parte scrive articoli e libri contro l’Italietta che gli fanno meritare il plauso delle fognarie terrazze romane e dall’altra fa l’autore strapagato a Sanremo, ovvero nella patria di quell’Italietta stupida, canora, consumistica che tanto avversa.

F.C.N.: Internet viene spesso definito una fonte inesauribile di informazione e un mezzo di informazione libera. A me sembra, invece, che su Internet si trovi di tutto per alla fine non trovare niente, perché l’informazione disponibile è, molto spesso, superficiale e raffazzonata, inaffidabile, ricolma di gossip e di leggende metropolitane, vedi ad esempio Wikipedia o certi blog “militanti”. Come è il tuo rapporto con la rete in merito?

T-La: La uso solo per la mail e per cercare informazioni sui quotidiani tedeschi più noiosi.

F.C.N.: Internet ha appena compiuto 25 anni, li porta bene o male secondo te?

T-La: A me aveva annoiato già nel 1999. Adesso è solo un’estensione della tv. Stesse tette, stessi spot, stessi personaggi. E quel poco di nuovo che vi nasce viene inglobato dalla tv. Vedi quei blogger ignorantelli che vanno a fare gli opinionisti e i comici in televisione.

F.C.N.: Negli ultimi anni sembra che in ogni discorso non si possa fare a meno di tirare in ballo i social network, che personalmente ritengo un po’ troppo sopravvalutati, li considero tutto sommato un po’ “inutili” e spesso terreno di scontro sul quale viene sfogata l’aggressività repressa. Tuttavia di alcuni di essi non posso farne a meno anche per condividere molte mie passioni. So che il tuo rapporto con questi mezzi è conflittuale. Che cosa ne pensi?

T-La: Li detesto. Twitter è una fiera delle vanità in cui giornalisti narcisisti che già affollano tv, radio e giornali devono aggiungere nulla al nulla. E creano una marea di mostri, impiegatucci che pensano di far parte del gran mondo dell’intellettualismo impegnato perché ritwittano l’aria fritta. Facebook è l’espressione più marcia della società tra selfie con tartaruga a vista, quindicenni baldracche che fanno le linguacce per mostrare i piercing, quarantenni panzuti che diffondono le loro foto al mare, donnette che riscrivono le migliori frasi di Fabio Volo e fotografano i loro gatti. O quelli che seguono pagine grillino-qualunquiste tipo “Adesso fuori dalle palle” o qualcosa del genere. Quelle pagine dove si spande odio verso politici o personaggi famosi che dovrebbero “andare a casa”, al solo scopo di lasciare il posto a questi biliosi ignoranti e impreparati il cui unico desiderio è far soldi senza fatica. Esattamente come quei politici che tanto avversano. L’unico social su cui sono presente è Instagram, perché mi piace fare foto quando giro in città. Ma anche lì seleziono attentamente chi seguire.

F.C.N.: A proposito: come sta Miucciaprada Gaja Gaetana Simonella Feisbucca Prima?

T-La: Non ne ho notizie da qualche anno. Me ne sono sbarazzato. L’aveva presa una signora che aveva già tre gatti. Purtroppo non riesco a condividere i miei spazi nemmeno con un animale domestico. Non sono abituato alla compagnia. Non ho frequentato oratori, collegi, colonie. Mai stato in campeggio, mai fatto viaggi con gli amici tipo Interrail o simili cose pulciose. Non ho fatto nemmeno il militare. Quando da ragazzo abitavo con i miei passavo tutto il tempo da solo in camera. Quando sono andato via di casa non ho mai pensato di poter abitare con qualcuno. Mi infastidisce anche avere un ospite per una notte.

F.C.N.: Qual è il tuo rapporto con il più grosso e influente media, la televisione, sia dal punto di vista di autore televisivo che di spettatore? E con la radio? Quali sono i programmi a cui hai collaborato che ti hanno soddisfatto maggiormente?

T-La: Preferisco la radio. Purtroppo le mie proposte non trovano spazio nelle radio attuali. Radio Tre è monopolizzata dalla sinistra romano-meridionalista. Nelle radio mainstream, quelle che mandano in onda i protagonisti della paccottiglia televisiva tra un disco e l’altro di Ligabue e Tiziano Ferro, non c’entrerei nulla. Penso spesso di aprire una web radio, così come ho aperto una casa editrice. Ma la SIAE è esosa. Ottusamente esosa.
Non guardo molto la tv, pur avendone una enorme. Trovo patetica la tv generalista di RaiUno e Canale 5, davvero fuori dal tempo. Non ho Sky, la trovo caciarona, autoreferenziale. Le satellitari sono fatte davvero male, da gente che al massimo potrebbe girare i video nei matrimoni.
L’unico programma di cui sono orgoglioso si chiamava Galatea. L’ultimo programma culturale della tv pubblica. Andava in onda nel 2005. Alle 2 di notte.

F.C.N.: Ti sei occupato di molteplici argomenti nei tuoi libri, quale consideri il tuo volume più riuscito? A quale sei più legato? Qual è, se ce n’è uno, il libro che non vorresti aver mai scritto? E quale il testo che avresti voluto scrivere, ma non hai mai realizzato?

T-La: Non ricordo quasi nulla di ciò che ho scritto. Ho solo una vaga impressione generata da ogni singolo titolo. Per tanti motivi il libro cui sono molto legato è Il piccolo isolazionista. Prima o poi lo rileggerò. Tornassi indietro non scriverei il libro su Renato Zero. È un personaggio verso cui non provo alcun interesse. L’ho fatto solo per soldi. Che fra l’altro… lasciamo perdere. L’ho usato come raccoglitore di testi sparsi che avevo nel disco rigido adattati a Zero. Davvero una brutta esperienza.
Ogni giorno ho un’idea per un libro che poi non realizzo. Però non ho rimpianti. Ho ancora molto tempo per scriverli.

F.C.N.: Hai trattato spesso di musica: Orietta Berti, Renato Zero, Michael Jackson, Freddy Mercury, Jimi Hendrix, John Lennon, che cosa lega tutti questi artisti tra loro e che cosa ti ha spinto a parlarne?

T-La: Nel caso di Orietta tutto è nato dopo averla conosciuta nel 1997. Ci siamo trovati subito simpatici reciprocamente e le ho proposto quel libro-intervista. Lei era un po’ diffidente, viste le brutte esperienze avute con i giornalisti. Poi capì che si poteva fidare. E stata una delle esperienze più divertenti della mia vita. Siamo ancora in contatto. Di Zero, ho detto. Per gli altri vale lo stesso discorso monetario. Visto che ho scelto di scrivere per lavoro, lo faccio. La cosa che lega tutti quegli artisti è solo una: non rientrano tra i miei preferiti. Nel mio iPod non ci sono. Se non scrivo dei musicisti che mi piacciono è solo perché c’è poco da dire, essendo molto di nicchia.

F.C.N.: Estatica è un portale che parla principalmente di musica, quindi continuiamo a parlarne: com’è il tuo rapporto con la musica, quali sono i tuoi musicisti di riferimento, che cosa ami ascoltare in questo momento?

T-La: Ho attraversato cinque decenni musicali e non ho mai tradito i miei amori. Tra gli oltre 15000 brani che ho nell’iPod c’è la discomusic dei tempi delle medie, i cantautori dei primi anni del liceo, la new wave e il postpunk degli Anni 80, il minimalismo americano, la peggiore musica tamarra degli anni in cui uscivano i miei primi libri. Credo che la mia passione per i Sigur Rós sia nota e indelebile. Io detesto i concerti dal vivo. Ebbene dei SR ne ho visti 5, compreso quello di Jónsi da solo. E poi un’infinità di brani elettronici di musicisti nordici, tra cui un duo svedese che si chiama Carbon Based Lifeforms e tanti altri spesso nemmeno distribuiti. Non seguo le nuove uscite. Mi imbatto in un disco, mi affeziono e lo ascolto per anni.

F.C.N.: Che cosa ne pensi della scena indie (passata, presente, futura) e in genere dei “movimenti” alternativi?

T-La: Mi ha sempre annoiato. Anche negli Anni 80, quando c’era una pletora di band scalcagnate che sapevano solo urlare, mescolavano i Joy Division ai Bauhaus. Per non parlare di quelli che emulavano i Litfiba. Chissà cosa pensano ora quei tipetti, ormai tutti imbolsiti e sui 50, quando dopo una giornata di lavoro alla Telecom si sciroppano The Voice of Italy con un patetico Piero Pelù.
Il vero problema dell’indie è che i suoi frutti sono tutti uguali. Tutti scemetti ventenni, con i capelli sugli occhi, poco propensi all’igiene personale, incapaci di suonare, pateticamente convinti che basti stare su un palco per godere di scopate garantite. E vederli fare i trasgressivi perché fumano una canna, nel 2014… glissons.

F.C.N.: Da ex-fanzinaro a ex-fanzinaro, ti chiedo anche: ha ancora senso secondo te al giorno d’oggi produrre fanzine?

T-La: Perché? C’è ancora qualcuno che lo fa?

F.C.N.: Nell’ultimo anno hai dato vita a una casa editrice, 20090, come è maturata questa tua decisione? Perché hai scelto questo nome e quali sono gli obiettivi che la casa editrice si pone, che cosa intende pubblicare?

T-La: Mi ero sinceramente stancato di editori poco trasparenti, mossi dal desiderio di apparire in prima persona più che dall’amore per i libri. Attento: non è self-publishing! È una vera e propria casa editrice, con tutti i tributi fiscali del caso, i codici ISBN, contratti eccetera. L’unica cosa che ci rifiutiamo di usare per il momento è la distribuzione. Perché ti porta via il 65% del costo di copertina di un libro. E non serve a nulla. Le grandi case editrici, che hanno una distribuzione propria, cannibalizzano lo spazio nelle librerie. I piccoli, ma anche i medi, spesso non sono nemmeno presenti sugli scaffali. I librai, ammesso che abbiano ordinato una copia di libri non editi da Mondadori o Rizzoli, non aprono nemmeno le scatole e te li rimandano indietro. Meglio quindi venderli via Internet a un pubblico mirato.
Siamo in due a gestire la casa editrice, io e Luca Rossi. Abitiamo in due paesi dell’hinterland milanese, non vicini, eppure entrambi hanno lo stesso codice postale: 20090. Così lo abbiamo scelto come nome.
Il nostro obiettivo è: pubblicare solo libri che ci piacerebbe trovare in libreria. Il primo è stato una raccolta di racconti di una bravissima scrittrice leccese, Loredana De Vitis. Il prossimo sarà un romanzo breve di Sergio Oricci, un trentenne di Firenze che ha scritto Bianco Shocking, una storia che incrocia il gotico, il fantastico, l’assurdo. Poi abbiamo in programma due libri fotografici.
Non è facile trovare autori. Ossia, di inediti ne arrivano, ma sono tremendi. Raccolte di poesie zoppicanti, romanzi di 300 pagine noiosi e irti di errori, cascami della beat generation, chick lit scritta da ciccione. Cose anche fuori tempo massimo. E quando scrivi che non sei interessato si offendono e ti insultano sui forum di sedicenti scrittori sfigati.

F.C.N.: Che differenza c’è tra il pubblicarsi da soli e lavorare per una casa editrice altrui? È un’esperienza vicina a quella dell’autoproduzione di fanzinara memoria? Cioè, com’è stato il passaggio da autore a editore?

T-La: La differenza è stata solo una: non devi lottare contro l’ego di persone che vogliono cambiarti i testi o vorrebbe andare in tv al posto tuo, pur non avendo alcun motivo per farlo. Diciamo che le ultime esperienze sono state davvero umilianti, ma tutto serve e tutto ti corrobora.

F.C.N.: Il tuo ultimo libro è particolarmente coinvolgente e si concentra su di un soggetto straordinario, il film Il vedovo interpretato da Alberto Sordi e Franca Valeri, uno di quei film culto che spingono a molteplici visioni e che contengono varie chiavi di lettura e soprattutto una molteplicità di tante piccole cose che non si possono cogliere alla prima visione. Come nasce questo libro e come mai hai voluto trattare proprio questo film? Che cosa contiene Il vedovo che altri film non hanno?

T-La: L’idea del libro è nata nell’autunno scorso, quando uscì il remake con la Littizzetto. Di cui naturalmente non parlo mai nel testo. Dovevano essere 48 pagine. Poi mi è sfuggita la mano. È un film che ho visto almeno 500 volte, quindi lo conosco in quasi ogni suo dettaglio. È una vera ossessione. Spero di esserne guarito dopo aver pubblicato un libro in cui ne parlo.
Il vedovo ha una tensione alla modernità che gli altri film del periodo non avevano, tutti così involuti, campestri, borgatari. Non a caso è ambientato all’ombra della Torre Velasca.

F.C.N.: Se non sbaglio è la seconda volta che dedichi un tuo libro ad un film (senza contare quanto scritto su Film TV), lo avevi fatto anche con uno dei tuoi migliori lavori, 78.08 – che poi non è un saggio, ma un vero e proprio romanzo nel quale giochi con La febbre del sabato sera – ma lo fai in un modo estremamente originale, non presentando una storia, una analisi e una critica della pellicola, ma attraverso una tua personale interpretazione, una tua visione degli eventi e soprattutto sapendo cogliere sfumature e dettagli che ad altri sfuggono. Che cosa ti porta a parlare di cinema e che cosa deve avere un film per catturare la tua attenzione?

T-La: Sono solo due casi. Il cinema mi interessa molto poco. Ci sono solo alcune pellicole che mi piacciono e che rivedo continuamente. Mi irrita il cinema italiano da Pasolini in poi. E non vado mai a vedere i film americani nei cinema pieni di bambini urlanti tra lo sgradevole odore del popcorn.
78.08 è stata una delle tante occasioni perdute della mia triste vita. Se fossi stato attivo in un’altra città, ne avrebbero ricavato un film, che poi magari nessuno avrebbe visto. Per fortuna c’è Walter Veltroni che adesso si è messo a fare il regista.

F.C.N.: È d’obbligo concludere parlando dei progetti futuri: che cosa stai preparando e che cosa uscirà prossimamente per la tua casa editrice?

T-La: Dei progetti di 20090 ti ho parlato. Io sto lavorando a più cose. Non so cosa ne verrà fuori. Probabilmente un piccolo saggio entro settembre e uno più lungo nel 2015. Per ora sono solo appunti sparsi.

 

Porta Romana negli anni sessanta (Milano)
Libro "Progetto Elvira - Dissezionando il vedovo" di Tommaso Labranca
Torre Velasca, fine anni '50 (Milano)
Alberto Sordi nel film "Il vedovo" (1959). Regia di Dino Risi. Con Franca Valeri