Folco Orselli

Generi di conforto

Recensione
Pubblicato il 04/12/2011
Voto: 8.8/10

Maledettamente bello, quasi fosse realizzato in 3D!

Le dieci tracce che compongono “Generi di conforto” hanno a mio parere le stesse caratteristiche del cioccolato, delle sigarette, di un cordiale sorseggiato quando fa freddo, di una coperta sotto cui addormentarsi, di un fuoco e di un abbraccio. Di conforto appunto”

Così lo stesso Folco Orselli definisce, nel comunicato stampa, il suo nuovo disco “Generi di conforto”, un disco autoprodotto per la sua neonata etichetta discografica Muso Records.

Come dargli torto, questo è un disco maledettamente bello, irrinunciabile. Ecco, se dovesse davvero arrivare la fine del mondo nel 2012, come previsto nella profezia dei Maya e mi dicessero, guarda puoi portarti con te solo una cinquantina di dischi, io a questo genere di conforto non rinuncerei.

Detto questo, ciò che più fa specie è, che un disco così ben realizzato, debba uscire come autoprodotto e che nessuna etichetta discografica di un certo livello possa essere stata interessata, ma questa è un’altra storia, torniamo al disco.

Cominciamo dal bel libretto che, dal punto di vista pittorico, in copertina e contro copertina vanta due splendide opere di Renzo Bergamo. La copertina è un ritratto di Folco, dipinto da Bergamo durante una delle loro, tante amichevoli sedute spese a parlare della vita e, l’altra, è un’opera gentilmente concessa dall’Archivio Renzo Bergamo, per gentile concessione di Caterina Arancia Bergamo, moglie del pittore.

Non possiamo però fermarci al pur bell’involucro, perché è il contenuto a rendere unico questo disco.

Mi concedo però ancora qualche premessa. Il disco ha una genesi piuttosto particolare, è stato pensato e scritto interamente in un trullo vicino a Martina Franca, qui Folco e Vincenzo Messina, arrangiatore e co-produttore del disco, si sono rifugiati per scrivere questi dieci brani, dando libero sfogo alla loro creatività, che ha così partorito arrangiamenti straordinari, pensati per sfruttare al meglio la capacità di creare magiche atmosfere, piccole sfumature che solo un’orchestra d’archi può avere. Si, perché occorre dire che, malgrado si tratti di un’autoproduzione, Folco non s’è fatto mancare nulla e per la realizzazione di questo disco s'è avvalso anche dell’Orchestra Cantelli, cinque primi violini, quattro secondi violini, quattro viole, due violoncelli e un contrabbasso che, guidati da Vincenzo Messina, hanno distribuito con generosità pennellate di colore, lampi di luce, zone d’ombra, realizzando un lavoro prezioso.

La macchina sonora ha poi visto all’opera ottimi musicisti, per lo più di matrice jazz, come Stefano Bagnoli alla batteria, Marco Ricci al contrabbasso, Giorgio Secco alle chitarre, Pepe Ragonese e Daniele Moretto alle trombe, Luciano Macchia al trombone, Valentino Finoli al sax, senza dimenticare lo stesso Vincenzo Messina che vanta un passato e un presente di collaborazioni con Zucchero, Renga, Terence Trent D'Arby e che, in questo progetto, si è destreggiato tra hammond, piano e programmazioni.

Non siamo però ancora giunti al nocciolo della questione, perché a rendere in qualche modo straordinario questo disco, non è tanto il corollario, bensì la manciata di canzoni, dieci per la precisione, che lo compongono.

Canzoni nate da questa premessa, come scrive ancora Folco:

È possibile ricreare su un disco la commozione trasportata che ci coglie quando, seduti in un cinema, veniamo coinvolti dalla trama e dai personaggi immedesimandoci in loro, partecipando alle loro gioie e ai loro drammi con il solo ausilio di musica e parole e, quindi senza immagini? È possibile scrivere canzoni partendo dalla “visione”, cercando di creare intorno all’ascoltatore un paesaggio visivo attraverso l’uso di un’orchestra d’archi? Musica come colonna sonora cinematografica al testo?”

Folgorato sin dal primo ascolto, dopo un crescendo continuo di piacere ai successivi passaggi, direi che tutto ciò è stato possibile e si è realizzato in questo disco, in cui le musiche hanno una valenza unica, una forza evocativa straordinaria che suggerisce, che sottolinea, che svela e cela continuamente, in un gioco di rimandi.

Tutto s’incastra alla perfezione in questo mondo visivo e visionario al tempo stesso, ma tutto questo è stato possibile grazie anche alla presenza di testi che, rispetto al passato, hanno abbandonato totalmente forme limitative come il bozzetto o la caricatura, per farsi invece pienamente maturi, riflessivi.

La stessa voce di Folco è si calda ma mai forzata come spesso gli accadeva nei precedenti lavori. Da questo punto di vista direi che l’ombra di Tom Waits s’è totalmente diradata e ne è uscito il vero volto di Folco, quello di grande e raffinato chansonnier.

Non sarà certo un caso se, nel 2008, Folco Orselli s’è aggiudicato, unico nella storia del Musicultura, a vincere tre differenti e importanti premi contemporaneamente nella stessa edizione, il “Premio della Critica”, quello di “Miglior Testo” e di “Vincitore Assoluto votato dal pubblico” con il brano “L’amore ci sorprende”.

A questo punto però, vi starete chiedendo, bello tutto ciò, ma le canzoni?

Mi verrebbe voglia di non dire nulla e lasciare a ognuno il piacere di scoprirle, una a una, perché qui non c’è proprio nulla da buttare e il preferire una canzone piuttosto che un’altra è solo questione di gusti personali.

Mi limiterò ad alcune suggestioni, perché come si può restare, ad esempio, indifferenti al suntuoso incedere della prima traccia, “In caccia di te”, una grande canzone d’amore, che si apre con tanto di rullo di gran cassa seguito dall’orchestra d’archi a disegnare una magica e sognante melodia, fino alla pausa e l’entrata della calda voce di Folco a cantare questi versi “In caccia di te / tradotta in qualche lingua / che a volte scusa ma / io non comprendo / è inutile spigarmi il verso / non sembra appartenere a te questa rima”, il tutto sopra un tappeto di fiati. Migliore inizio non poteva esserci.

Sublime, direi molto anni ’40-’50, “In equilibrio (cadendo nel blues)” mi ricorda lo stile di Lionel Hampton, non ha una nota fuori posto, tutto è in equilibrio come sospeso su un filo. Mirabile l’inizio “E se, e noi / era per ieri e non, / per ora, per sempre / solo per domani” così come la conclusione “Ma se, se noi / riusciamo a dirci che / non è adesso qui il nostro destino / che nella solitudine / si riesce a percepire che / più siam lotani e più siamo vicini”. Tutta la fragilità e la forza dell’amore nel medesimo istante. Fantastica la presenza “vibrante” dell’hammond di Messina.

Un po’ tex-mex, “Dubbi lascia indubbiamente più spazio ai fiati e alle chitarre. Da annotarsi questo passaggio “Alla mia sete porterò / un piatto caldo da mangiare / e alla mia fame poi darò / un otre intero da cui bere”. Difficile nella vita far combaciare sogni e realtà.

La ballata di piazzale Maciachini” è un azzardo, il voler dimostrare che anche da un insignificante posto della periferia di Milano (la città di Folco), se guardato con occhi diversi, in questo caso quelli davvero sensibili di Folco, è possibile trarre bellezza e poesia. Davvero sugli scudi l’hammond, la sezione fiati e quella ritmica costituita da batteria e contrabbasso. E’ forse l’unico episodio del disco che, per stile, ricorda un po’ il passato di Folco, resta il fatto che è suonato divinamente.

Con “La ballata del Paolone” si torna al versante più intimista, quello forse più congeniale a Folco, anche se non manca qualche sprazzo, seppur brevissimo, davvero brioso e spumeggiante all’interno di questo brano che racconta la storia di un barbone e del suo grande amore per Marisa. La donna, anche lei una barbona “adesso è innamorata del barone / lu ch’el ga pusé del can che del cristian”, ma poi finalmente tornerà da lui “Tu tornerai per dormire nei vagoni / tornerai per questa vita da barboni / tanto un giorno in quella vita dei signori / scoprirai che erano i tuoi i più bei tesori”. Commovente.

Balla” è l’episodio più folk blues del disco, le chitarre elettriche primeggiano pur restando morbide e suadenti, l’amore si fa passionale ma anche pieno di speranza “E quando l’aria sarà dura / e le tue guance bagnate / sulle paure gira la tua gonna / saranno dimenticate / Balla che sei diversa / hai il sapore del sole”. Trainante.

Si alzano le code delle giacche / sotto questo vento che ci sbatte / sfoglia lascia nudi senza foglia / in quell’attimo di pace che rimane”, con questi versi si apre invece “Macaria” e, dopo le note interlocutorie del pianoforte, è già magia. Splendida l’atmosfera quasi sospesa di questo brano che racconta del desiderio di sognare, di volare, viaggiare senza meta per tornare e raccontare “Vecchie storie di balle marinaie / che son vere e che ci puoi giurare”.

Storia della morte e del suo amore”, a tratti epica, a tratti straziante, quasi morriconiana nel suo lento e maestoso incedere, è il magnifico e poetico racconto dell’incontro tra la morte e un giovane del quale s’innamora ma che, ovviamente, poiché morte, non potrà mai amare “No l’amore no / lasciami andare / che morte sono e non potrò mai amare / No l’amore / non posso fare / che mai provai nessun più gran dolore”. Superlativo!

Folle come lo è in fondo, umanamente pensando, la morte, è “Inno alla follia”, un pezzo che si regge su una scrittura musicale e degli arrangiamenti che sono a dire il vero anch’essi folli ma che, come in una magica alchimia, funzionano alla perfezione. C’è pathos, c’è lucida follia, c’è tutta l’umanità dell’affrontare il baratro del nulla dopo la morte “Oh che gioia / ma dove porterà / questo calor che interno mi divora / fino alla cenere / dell’immortalità”.

Bellissimo, infine, il conclusivo “Manila”, lento, ricco di suggestioni, il racconto di un amore che è stato e non è più, rovinato dai pettegolezzi, dalle cattiverie gratuite. Bellissima è la conclusione, quel voler superare ogni difficoltà, quel passaggio dall’essere due individui all’essere un solo noi “Ma il tuo ricordo lo tengo nel cuore e non me lo ruberanno mai / La tua collana la porto sul cuore e non me lo ruberanno mai / il nostro amore lo tengo nel cuore e non me lo ruberanno mai / non ci ruberanno mai”.

Lo solo, le mie dovevano essere solo piccole suggestioni, ma è difficile trattenersi quando capita tra le mani un disco capace di far sussultare il cuore, di far vivere emozioni profonde e sincere.

Ecco, ciò che più apprezzo di questo disco è proprio la sincerità d’intenti, non c’è mai la volontà di voler stupire a tutti costi, semmai il desiderio di comunicare le emozioni vissute dall’autore stesso attraverso altri canali, in questo caso il cinema. Se l’intento era questo, direi che il risultato è superlativo, perché in più passaggi si ha proprio l’impressione di essere immersi in un film, si potrebbe quasi parlare di musica in 3D, dove la terza dimensione è quell’immaginario visivo che si genera nell’ascoltare questi dieci brani.

Non lasciatevelo sfuggire!

Folco Orselli - Generi di conforto

Folco Orselli

Generi di conforto

Cd, 2011, Muso Records Venus

Brani:

  • 1) In caccia di te
  • 2) In equilibrio (cadendo nel blues)
  • 3) Dubbi
  • 4) La ballata di piazzale Maciachini
  • 5) La ballata del Paolone
  • 6) Balla
  • 7) Macaria
  • 8) Storia della morte e del suo amore
  • 9) Inno alla follia
  • 10) Manila

Informazioni tratte dal disco

Crediti
Folco Orselli: voce, piano, chitarra
Vincenzo Messina: Hammond, piano, chitarra e programmazioni
Giorgio Secco: chitarra acustica, chitarra elettrica
Stefano Bagnoli: batteria
Marco Ricci: contrabbasso
Pepe Ragonese: tromba
Daniele Moretto: tromba, flicorno, corno
Luciano Macchia: trombone
Valentino Finoli: sax tenore, sax alto

Orchestra d’archi
Primi violini: Dimitri Chichlo, Giulia Bizzi, Livia Hagu, Marcello Jaconetti, Andrea Pellegrini Secondi violini: Ornella Cullaciati, Donata Begiora, Christine Champlon, Fabrizio Francia
Viole: Irina Balta, Elisabetta Danelli, Simona Guerini, Valentina Soncini
Violoncelli: Claudio Giacomazzi, Antonio Patetti
Contrabbasso: Luca Bandini
Testi e musica di Folco Orselli
Produzione artistica: Vincenzo Messina e Folco Orselli
Produzione esecutiva: Fulvio Orselli
Arrangiamenti orchestrazione e conduzione: Vincenzo Messina
Adattamento organico orchestra: Adriana Ester Gallo
Registrato e mixato da Matteo Agosti al Frequenze Studio di Monza
Assistente di studio: Michele Marino Gallina
Masterizzato da Giovanni Versari allo Studio La Maestà di Tredozio
Orchestra registrata all’Elfo Studio di Piacenza
Art Director: Alberto Tandoi

Le foto interne sono di Max Volontè

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