Omaggio a Claudio Milano

Pubblicato il 10/10/2017

Argomento: Musica

Preludio

“Quando avvertiamo intimamente che tutto si può dire, in un interno vociare del pensiero che rimbalza, riecheggia, rintocca, ritorna e fugge, si moltiplica sino a diventare assordante, l’impossibile non è più un confine o una muraglia, ma un varco: cioè la possibilità di altro… insomma la questione, in quanto questione, implode, si neutralizza da sé, rivelandosi dunque un dettaglio, lasciando posto all’infinito dei possibili. L’autentico incantesimo del mago, dello stregone, e se vogliamo del santo, del filosofo, dell’artista, è proprio quello di fare piazza pulita (sparizione e materializzazione) di ciò che egli stesso presenta – si tratti di trucchetti, parole, opere – e rappresenta, per alludere quindi a tutto il resto; occupandosi dell’irrisorio apparente permette ad ognuno di guardare altrove, di tentare un individuale mesmerismo. Perciò non ha alcun senso rapportarvisi con l’appiglio a qualsivoglia principio di realtà , col distacco critico, a meno che non si trasformino anch’essi in fuga musicale cosmica”

Claudio Milano

Claudio Milano è un cantautore, compositore e ricercatore vocale [per acco(r)darmi a termini di comodo che usa lui stesso]; un artifex, che con cura maniacale da miniaturista e cesellatore costruisce e decostruisce suoni e forme, in barba all’arte dell’arrangiarsi ch’è l’arrangiamento, con un eclettismo non pianificato come soluzione stilistica, quanto piuttosto come necessario spostamento continuo. Attraversamento che procede spesso per quello che potremmo chiamare accumulo barocco o collage/pastiche, e pure di volta in volta differente, ad evitare le bare delle formule, dei procedimenti dati. Claudio Milano guarda all’inter-sezione aurea fra “colto” e “popolare”, all’arte figurativa e alla musica contemporanea, al medioevo, al barocco e al pop (con il rock in tutte le sue articolazioni), ma definendo o accettando la definizione, i confini –arbitrari- solamente per espandere o svuotare dall’interno le formule stesse. Non gli basta il solito aggettivo di “postmoderno”, perché non giura fede, in fondo, a nulla, sapendo che nulla basterà ad accogliere/raccogliere davvero i fantasmi; non porta peso di storie e tradizioni che non siano quelle strettamente intime, filtri e lenti inderogabili, ed è per questo che nonostante qualsivoglia tortuosità viene meno, nei suoi lavori, la fredda pedanteria del metodo. Si tratta di indagare il possibile non tanto attraverso la virtù del virtuoso, quanto tramite la capacità intesa in senso volumetrico, farsi vuoto per accogliere un inesauribile pieno di possibilità. Se il virtuoso cerca l’effetto, lo stupore del pubblico, l’effetto provocato dalle tecniche diventa per Claudio soprattutto un’autoprovocazione atta a crearsi delle connessioni per superare le stesse, liberandosene; non generare un “affetto”, quanto immergersi in una condizione che consenta a sé stessi un attraversamento. La capacità vocale deriva dalla necessità di dare corpo alle tante voci, perché si è, parafrasando Laforgue, troppo numerosi per dire sì o no, per accettare di avere un solo volto, una sola voce, per svendersi ai ghetti dei generi estetici. Se spesso il ricercatore vocale IMITA/MIMA il suono di uno strumento, un concetto o un’emozione –lo si è ampiamente visto, fra l’altro, anche in tante composizioni di musica contemporanea, dove si tende a RAPPRESENTARE musicalmente, non diversamente da come si teorizzava nella teoria degli affetti – la voce di Claudio Milano procede da un prima (e non a caso viene incisa quasi sempre prima degli altri strumenti), da una ferita originaria che si dirama, è essa stessa la ferita, e si riferisce sempre a sé stessa… viene in mente Wilde quando, invertendo il pilastro romantico dell’imitazione della natura, diceva che è piuttosto la natura a imitare il quadro, rimettendo in discussione i codici della rappresentazione.
Questo artifex è allo stesso tempo il satiro e il femminiello, la vittima e il carnefice, il demone e l’angelo, ché gli opposti, questi residui dell’umana dialettica e smania di definizione e di identità, forse coda e testa (testacoda) della finitezza umana, finiscono per coincidere quando si guarda oltre il parapetto dei ruoli; nel confondersi delle presunte identità, allora, affiora la generosità congenita di chi è condannato a portare fiori nel deserto, non potendo sentirne il profumo e la bellezza se non per pochi istanti d’assenza, come dall’esterno, a sporgersi e porgerli, che siano odorosamente marci o no… c’è chi li getta in terra, chi s’impegna a calpestarli, chi li disprezza, chi li cura, chi li celebra, chi li tiene con sé per un po’… diceva Van Gogh: “È come avere un gran fuoco nella propria anima e nessuno viene mai a scaldarvisi, e i passanti non scorgono che un po' di fumo, in alto, fuori del camino e poi se ne vanno per la loro strada”.
Poco e tutto importa, questo è il gioco, Il gioco del silenzio, se si vuole, citando il titolo di un suo disco.

Cominciamo il nostro gioco con una fiaba deturpata, dolce e terribile come tutte le fiabe, la fiaba stessa della catarsi; in Fiaba (Il gioco del silenzio, 2010) la sospensione narrativa si insinua nelle sillabe prolungate, galleggianti del canto e nel sincretismo fra gotico cinematografico e aperture barocche, oltre che in certo fluttuare di modo maggiore e minore. Nel ritornello, “liberami dall’odio che è in me” , spicca improvvisa la grazia del falsettone, emissione ricorrente, con tante sfumature, nella vocalità di Claudio Milano; ma la melodia si infrange presto su rumorismi e dissonanze fino, appunto, alla liberazione, che si compie o finisce correndo sulle corde di un violino, scorrendo in bastoni della pioggia e sprofondando quindi in un gargantuesco ultragrave, che riporta la fiaba a essere inghiottita dagli abissi ctoni, terrestri. L’urlo, rubato nei primi anni del suo operare (L’urlo rubato) , e “ritrovato” (Bath salts, 2013) in seguito, prende le mosse dall’Ave Maria, e se “le foto delle lapidi dei morti ci urlano di rispondere al perché del loro fallimento”, ecco il moltiplicarsi di una vocalità corale: “Spegnete la luce, più luce”. Un film. “Qual’è la risposta? In tal caso qual’è la domanda?”. Si innesca un botta e risposta fra voci, ed è in questo delirio che “possiamo attraversare le sabbie mobili assieme”, una spazialità di varchi e sovrapposizioni, c’è la Francia, l’esercito giuseppino, Galileo, Giovanna d’Arco, la farsa della vita e della morte: i fantasmi sono ancora prigionieri, in primo luogo delle loro ultime parole da vivi (è un collage di frasi premortem attribuite a figure storiche), ma tutte metafore delle voci interiori dell’artista che si interroga sul limite dell’esistenza umana e delle sue opere, sulla mortalità insita nell’eterno estetico (“tutte le cose composte sono destinate a disintegrarsi”). Così si disarticola il buio, un vuoto temporale in cui è la morte stessa a morire, e il prima e il dopo si confondono in un’interminabile coda jazz. La morte resta ineffabile; citando Epicuro, “quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi. Non è nulla per i vivi né per i morti”… è per questo che le urla si rispondono fra loro, e l’esorcismo non basta a delineare una separazione o a trovare verità ultime: l’urlo è ritrovato in quanto urlo e basta.
La dissoluzione della forma canzone prende di mira dei classici assoluti nel medley Europa che muore (2004), in cui appaiono ed evaporano Ne me quitte pas, su un pianoforte quasi da cabaret, Le diserteur, che entra su una marsigliese dissonante e finisce su un sax a due note che s’incanta, e Vedrai, trasfigurata in un lied in cui false corde e falsettoni esasperano il pathos lirico; fede e disperazione si confondono: “Non so dirti come e quando ma vedrai che cambierà”.
Anni dopo, l’Europa che è morta (ancora inedita, farà parte del nuovo lavoro) definitivamente, e i classici stavolta sfilano ancora più spettrali, spesso irriconoscibili, sovrapposti, Albergo a ore , La chanson des vieux amants, Avec le temp , La costruzione di un amore, Canzone dell’amore perduto, Mi sono innamorato di te. Le melodie cambiano, aprono varchi ogni istante, facendo dell’imprevedibilità stessa un flusso musicale/sonoro, e dal lied sognante di una morte ancora in corso si passa alla liturgia di una fine oramai avvenuta e celebrata, di madrigali riecheggianti e recitativi spogli; l’ultimo guizzo è il non rimpianto (“No, je ne regrette rien”), chiuso da un beffardo, corale: “L’Italia chiamò”.

La vocalità di Claudio Milano è una voce-teatro: voce come spazio, come luogo teatrale. Una dimensione, una camera oscura assediata da immagini, o meglio una camera oscura al contrario, dove tutti i canali interni vengono ingranditi e proiettati all’esterno. La voce teatrale –l’etimologia di “teatro” è legata al “guardare” – è soprattutto la voce che lancia lo sguardo su sé stessa, sui pozzi da cui proviene, sono i suoi fantasmi infiniti appollaiati sui palchetti del teatro all’italiana che, più che osservare la scena, si scrutano fra loro. Una vocalità prismatica, come già accennato, “lirica” nel senso greco del termine, ispirata al canto cameristico e a quello liturgico, a quello orientale (l’impiego e lo studio delle false corde) e alle emissioni già utilizzate nell’ambito della ricerca vocale occidentale degli ultimi decenni, i suoni di flauto e di fischio; tecniche, certo, ma ancora una volta plasmate sulla SUA voce, che è un flusso unico e riconoscibilissimo, sempre presente, in fieri, e modulato costantemente sulla brillantezza dei risuonatori. Un’idea personale di belcanto e di espressionismo che passa per Schönberg e per l’amato Peter Hammill, oltre che per una miriade di altri nomi, compagni di viaggio più che “maestri”.

Claudio sa che al di là dello stile, dello schieramento dei generi o del metterli assieme, dell’ideologia estetica, c’è l’artista; egli è tale nella sua unicità poetica, non negli orpelli che fanno questo o quello. Ciò che conta e canta passa attraverso soluzioni: è un fatto energetico, i procedimenti si attraversano, si può con curiosità –e magari per noia – saltellare dall’uno all’altro. Capita di essere in bilico fra pop e classicismo, barocco e catarsi, Sturm und Drang e Dadaismo, miniaturismo della composizione e dell’oggetto disco, del capolavoro, e demolizione. Decostruzione e costruzione, perché occorre costruire prima di tutto, a maggior ragione oggi che è finito (al di là del bene e del male) il tempo dei grandi riferimenti, e solo così il gioco può proseguire, rilanciando. Difatti per lo stesso Derrida la “decostruzione” non è un metodo, ma un “ascolto” di volta in volta diverso, giacché tutto è costituivamente in decostruzione… allora è questione di “orecchio”, di captare le dissonanze, forse di amplificarle, ma tutto è già lì, da trovare e ritrovare, aggiungendo, togliendo, complicando, svuotando.