Deadburger

La Chiamata

Recensione
Pubblicato il 10/11/2020

Deadburger, ovvero l’underground che chiede di essere vissuto, ora.

Prologo:
E se la felicità risiedesse in un centro commerciale caldo? E’ quanto i Deadburger, al sesto capitolo discografico di una carriera che procede dal 1997 con colpi di scena davvero sorprendenti, affermano in modo poco convinto nel brano che chiude questo album concept, La Chiamata, in uscita per Snowdonia il prossimo 20 Novembre.
In quel centro commerciale però c’è una strana figura… uno sciamano. Non di quelli raccontati in modo fiabesco, un signore di mezza età dall’aspetto inquieto e inquietante, come espresso dalla cartella stampa dell’album “con occhi da pazzo e cuore rattoppato”.
Simone Tilli, voce del progetto e polistrumentista, lo interpreta, peraltro reduce da esperienze personali di salute che creano un parallelo diretto con il protagonista del racconto (pur non avendo, per fortuna, alcuno sguardo inconsulto).
Uno sciamano dicevo, che suona un tamburo e pronuncia frasi apparentemente senza senso. Mentre chi gli è attorno non si spreca nel dileggio nei suoi riguardi, il pavimento del centro commerciale si apre come a lasciare emergere qualcosa di non chiaro. La gente corre, ma… è solo un’allucinazione. Null’affatto sconsolato, lo sciamano si dirige all’uscita del grande magazzino, fiero di aver provato a creare un corto-circuito di percezione (del resto cosa sono oggi le nostre vite, sospese tra “virtuale” e “reale”?), perché prima o poi ne è certo, “una reazione”, o meglio “un’eruzione”, dovrà pure arrivare.
Il racconto è racchiuso nel prezioso booklet del disco di ben 68 pagine, pari ad un autentico libro e pur accompagnato dai magnifici disegni di Paolo Bacilieri. Nel libricino campeggiano una moderna “Alice attraverso lo Specchio” via Carroll che guarda con circospezione il suo rientro alla realtà; la citazione di un sempre illuminato Robert Wyatt da “The Age of Self” ad affermare il pericoloso individualismo sociale che altera la percezione stessa del reale; un magnifico almanacco (chi ricorda “Il Leonardo”?) a chiarire ragioni e caratteristiche dello sciamanesimo e molto, molto altro, fino a un perentorio “bang, bang, bang” finale che oggi più che mai ha i toni di una premonizione. Nessun corrispettivo possibile a livello mondiale per tale profusione di energie mentali e pratiche, se non, forse, per le pubblicazioni di Le Forbici di Manitù, gli Spiritualized di Ladies and Gentleman We’re Floating in Space e qualche rarissimo cofanetto dei Flaming Lips, che io ricordi e possegga...
Dopo il sensazionale “La Fisica delle Nuvole” del 2013, che a mio modesto avviso rimane una delle pubblicazioni mondiali di maggior spessore del decennio scorso, album dalle trame spirituali e dal carattere altrettanto meditabondo, “La Chiamata” si muove nella direzione diametralmente opposta.
Da una prima occhiata alla tracklist, ciò che colpisce è la lenta e certamente organizzata progressione delle tracce in durata, dai quattro minuti del primo pezzo ai nove e oltre dell’ultimo.
Un album livido, arrabbiato ma non cupo, che si regge su alcuni elementi cardine:

  1. la tecnica del cut-up dadaista di Vittorio Nistri, qui portata a conseguenze davvero inaudite;
  2. un comparto percussivo da sogno a mettere assieme due batteristi per ogni brano, “chiamando” a raccolta Zeno De Rossi, Bruno Dorella, Cristiano Calcagnile, Simone Vassallo, Marco Zaninello (ognuno proveniente da “realtà avant del nostro paese che ad elencarle sarebbe cosa stucchevole), nonché i tre batteristi storici della band: Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto, Pino Gulli, ma anche al tamburello il M° Alfio Antico;
  3. la voce, estesa, di Simone Tilli capace di spaziare con naturalezza da toni baritonali, a frequenze tenorili che manco il migliore Chris Cornell, con pure a disposizione un arsenale di sfumature del canto fatte di screaming, suoni gutturali, vocalese surreale, un magnifico falsettone rinforzato. Una voce che in questo disco abbraccia nella definizione di linee melodiche, l’intero parterre del canto anni 80-90, i fari della scena fiorentina e dunque Miro Sassolini, Piero Pelù e poi Giovanni Lindo Ferretti, il primo Morgan, Luciano Ligabue, senza rinunciare a certe aggressività care all’industrial e a Marylin Manson in particolar modo (lo so, fa strano… ma leggete il resto, capirete). Un canto che qui si colora di onomatopee, travolge persino l’emozione a tratti e ad altri suona così caratterizzato da essere “cartoonesco”, per rimanere infine sempre e comunque quella di un “bravo ragazzo”, invero assai “su di giri” tra questi solchi;
  4. l’attenzione a temi sociali trattati con un linguaggio semplice e diretto, “popolare”, per quanto non estraneo a una poesia contemporanea, di quella che non cerca eleganza, la trova nel linguaggio corrente come in momenti di maggiore connessione con sé.

Come per il disco precedente qui i Deadburger sono una Factory, perché a prestar supporto al disco, da studi sparsi per tutta Italia sono stati ospiti di assoluto riguardo che via via andrò ad elencare.

Analisi dei brani:

Si chiama Onoda Hiroo il pezzo d’apertura, una sorta di auto-presentazione dello sciamano di cui sopra, che tra questi solchi declama “Sono il tenente Onoda Hiroo, ma voi cosa siete non lo so” e lo fa con una linea melodica (ad opera di Nistri, come l’intero pezzo) che sembra uscire dal repertorio di Ligabue e in parte, i Negrita. L’incedere della sezione strumentale esordisce con dei suoni che mi rimandano a un synth Fairlight anni 80 via Trevor Horn, organizzati con un rigidissimo editing su cui poggiano gradualmente la chitarra elettrica, le batterie tribali di De Rossi e Brambilla, il contrabbasso di Silvia Bolognesi (già con gli Art Ensemble of Chicago), il canto assai teatralizzato di Tilli che sfiora l’estetica punk primigenia. Percussioni elettroniche e suoni sintetici assortiti richiamano elementi industrial, una sirena fornisce colore fumettistico, un piano elettrico liquescente richiama gli Stranglers.

La commistione di elementi si fa più complessa con Un Incendio Visto da Lontano brano scritto da Nistri e Tilli. Qui le ritmiche si ammalano davvero di un sordido sciamanesimo che mescola jazz (Zeno De Rossi) e rock (Silvio Brambilla). La voce si fa declamazione post-punk che avvicina di molto i Massimo Volume, incontra onomatopee in aspirazione dopo aver accennato il chorus. Nistri si cimenta in un magnifico solo di pianoforte elettrico jazz con raffinatezza davvero sublime, fatta di pochi fraseggi ma studiati nei minimi dettagli tanto in riferimento ad intervalli che a geometrie esecutive serpentinee. Il chorus incalza come un leitmotiv che declama “la distanza” a riecheggiare i Diaframma di Siberia prima di esplodere in urlo e ritmica animata su una sirena- onomatopea che crea legame narrativo col brano precedente. Ancora Nistri in evidenza, che in un succedersi di micro-varianti sul tema iniziale, inanella pure un bellissimo solo di organo a supporto di un calibratissimo contributo all’elettrica di Alessandro Casini che qui fa del suono pura arte timbrica.

A mia detta il capolavoro del disco arriva con la title track che è anche uno dei brani di rock indipendente italico più diretti, affascinanti e potenti degli ultimi anni. La Chiamata regge sull’invettiva di brevi versi del testo, supportati da una ritmica ad opera di Cristiano Calcagnile e Pino Gulli pari a un motore pneumatico caro a Pat Mastelotto nell’ultimo album degli Isildurs Bane. Il solo incipit della chitarra di Tilli denominata “hammer guitar” è un programma di meraviglie a divenire. Il canto di matrice post punk non disdegna nel mezzo una citazione dei modi grunge, la chitarra di Casini disegna trame concentriche a definire un loop ben supportato dal sempre immenso Enrico Gabrielli (mi auguro ricordiate i Mariposa), il sax di Edoardo Maraffa esplode in ululati free jazz cari ad Albert Ayler, Mats Gustaffson, ma a ben ascoltare ancor più della scena no-wave che fu. Pura energia, invenzione strumentale e sonica, complimenti vivissimi a tutti. Si, a citare il testo “l’onda” è arrivata eccome.

Seguono due episodi più smaccatamente strutturati che pur frutto di un certosino lavoro d’intelletto mantengono una freschezza d’esposizione invidiabile. Non solo, hanno la funzione di spartiacque dell’album a favorire una dimensione più spiccatamente trascendente propria dello sciamanesimo.

Il primo dei due è una completa rilettura di un brano (Tryptich) del compositore Max Roach e pure include campionamenti percussivi a nome di Iannis Xenakis, Gruppo Improvvisazione Nuova Consonanza, Andrea Centazzo, Ian Wallace’s Crimson Jazz Trio, Kazimierz Serocki, Roger Turner, Steve Noble, Tyondai Braxton.

Il processo compositivo è raccontato da Vittorio Nistri nel booklet e voglio riportarlo integralmente ad esporre a chi dice che il mondo “underground” delle musiche di confine è “solo approssimazione”, quanto lavoro possa esserci appresso alla definizione di ciò che chiamiamo da decenni “avanguardia pop-rock” e senza alcun riscontro oggettivo, ad oggi, da nessun fronte tale da lasciare sedimentazione. Perché è vero, si assiste ad un ribaltamento dei piani di percezione e valutazione del fare creativo e i Deadburger lo sanno eccome.

Nistri: “Più che una cover, una reinvenzione, o ri-scrittura, del brano di Roach. L’originale era un canto di rivoluzione per sola batteria e voce. Anche la versione Deadburger si basa esclusivamente su percussioni e voci: le due gamme primigenie di eventi musicali. Però entrambe sono state espanse e “portate altrove” dall’elettronica. Le due batterie acustiche sono state filtrate attraverso ring modulator, echi, pitch, distorsori, tagli di frequenze, ecc. I filtraggi sono stati applicati non in modo costante/uniforme, ma per “accensioni”: interventi rapidi e improvvisi, come pennellate impressioniste. Tutti i suoni dell’intro sono stati originati da un piatto di batteria suonato con l’archetto da Cristiano Calcagnile, poi filtrato. Per la voce invece i filtraggi sono stati pochi - un paio di flash di harmonizer, un distorsore valvolare da chitarra - ma l’elettronica (in questo caso, intesa come tecnologia di registrazione e di successiva elaborazione di quanto registrato) è stata comunque determinante nelle modalità di realizzazione. Punto di partenza: un paio di takes registrati in diretta da Simone Tilli e Zeno De Rossi, e completamente improvvisati. Senza preoccuparsi di ripetere le linee melodiche del brano originale di Roach, ma rispettandone la dinamica emozionale da preghiera a grido. Da un cut up di queste improvvisazioni, Vittorio Nistri ha ricavato la voce guida, che poi ha trascritto su pentagramma. Su di essa, successivamente, ha composto una partitura polifonica per 4 voci complessive, che Simone ha registrato in overdub. Le melodie monofoniche iniziali si sono espanse in “accordi” vocali. Le possibilità di organizzazione ex post insite nella registrazione digitale sono state qua utilizzate per azzerare i confini tra improvvisazione e scrittura. Il risultato finale è frutto pariteticamente di entrambi.”

Dal mio canto posso dire che l’intero impianto strumentale è superlativo. Il canto è magnifico nei cori ricavati e trattati elettronicamente quanto nel bellissimo falsettone rinforzato, di una nitidezza limpidissima e drammatica nel suo volgere al pianto, ma che trovo la lunga sezione di screaming sopra le righe, troppo legata all’idea onomatopeica nel suo essere reiterata. Eccellente Calcagnile.

Al brano seguente, Tamburo Sei Pazzo, contribuisce in qualità di co-autore il M° Alfio Antico che partecipa al testo della prima sezione e alle musiche della prima e la seconda.

L’idea del brano nasce dal libro di Matteo Guarnaccia Sciamani (Shake Edizioni, 2014). Il testo riporta un canto tradizionale siberiano (un cui campione è inserito nella traccia in discussione), nel quale lo sciamano parla direttamente al suo tamburo redarguendolo. Perché? Perché il suo tamburo si imbizzarrisce, scalcia come un ossesso e addirittura vola via. “Stai calmo!” dice lo sciamano al tamburo. “Non volare in cielo, non andare sottoterra! Ascolta e ragiona! Facciamo pace, smettila!”.

I Deadburger ne traggono un brano affascinante, diviso nei piccoli capitoli “Tamburo Sei Santo”, “Tamburo Sei Fiamma”, “Tamburo Sei Pazzo”, “Tamburo Sei Stanco”.

La gestione dei quattro quadri è assai fluida. Ha inizio con suoni di tamburo, elettronica minimale pari a pulviscolo, segue un recitativo scarno con voce popolare senza particolare enfasi. Le batterie di Simone Vassallo e Lorenzo Moretto, assieme al basso di Carlo Sciannameo introducono il canto di Tilli che si annuncia con una brevissima linea vocale Litfiba docet, a seguire un recitarcantando carico d’enfasi colorato dai fiati di Edoardo Marraffa a ricordare da vicino Dana Colley. Tutto si fa molto cartoonesco, divertito e divertente.

Manifesto Cannibale è per chi scrive l’altra colonna dell’album assieme a La Chiamata.

E’ in questo brano che si condensa l’intera poetica del disco, che accoglie campionamenti nel testo dal Manifesto Dada di Francis Picabia e da “Merda e Luce” dell’amato Antonio Moresco. Durante questo pezzo il protagonista del racconto del disco chiede al suo tamburo di far sollevare il pavimento ed è nel corso di questo brano che Nistri dà il massimo di sé in qualità di liricista. Una feroce critica sociale e di un sistema accettato con educata rassegnazione. Nistri chiede attraverso la voce di Tilli alla gente all’interno del grande magazzino: “e voi che cosa fate qui come tante ostriche che hanno rinunciato ad ogni perla? E poi, a quale niente cosmico vi aggrapperete per convincervi di non essere inutili né sterili? E intanto le cellule si stanno suicidando, disidratando, bruciando come stelle… solo il denaro non muore. Tutt’al più si fa un viaggio, il denaro è onore e l’onore si compra e si rivende”. La sezione più drammatica del testo è però nel finale quando appare un’esposizione diretta. Lo sciamano protagonista si rivela e diviene Deadburger nella sua umanità diretta. L’effetto narrativo è commovente, tanto più alle parole “Deadburger è come i vostri eroi: niente di niente, è come le vostre speranze, niente, la società virtuale, niente di niente, una protesta on line, niente, i vostri aggiornamenti: niente di niente, è come il futuro, è come voi e me” e poi ancora: “CHE BRUCI IL NIENTE! COLLASSI IL NIENTE! IMPLODA IL NIENTE! FANCULO AL NIENTE! Le vostre sicurezze: niente, investimenti sul futuro: niente e voi state a guardare come se non vi riguardasse tutto questo niente, questo vorace, niente”.

Ecco… ammetto che ho pianto dopo questi versi, vi ho colto la stessa profondità e cruda esposizione di una Still Life a firma Peter Hammill.

Assai scarno ma efficace l’incipit che ricorda da vicino nella linea vocale i percorsi dei primi Afterhours e nelle linee più sospese che seguono i Bluvertigo di Zero per la ieraticità non enfatizzata e i numerosi ribattuti, gestiti però con maggiore risorse di colori di fonazione, a seguire evidenti riferimenti ai primi Diaframma. La sezione strumentale è tutta un florilegio di invenzioni, momento per momento, a carico delle ritmiche e delle chitarre di Alessandro Casini, davvero magnifiche. Al minuto 6’41” esplode la ritmica con dei terzinati rapidissimi e di grande effetto su cui Tilli irrompe in urlo fino a raggiungere frequenze acutissime. Piccola sospensione e poi un finale ieratico figlio nobile di Sassolini e soci a declamare in modo permanente cosa è Deadburger per chi ascolta, come dal testo prima
riportato.

Il brano a chiudere, Blu quasi Trasparente trova numerose variazioni ritmiche come soluzione d’effetto su cui il canto riprende in modo dichiarato il percorso dei CSI che furono. Al canto qui non il solo Tilli ma anche il geniale compositore e giornalista Davide Riccio, la purezza immacolata e vibrante della voce di Cinzia La Fauci dei Maisie (sua l’etichetta Snowdonia che produce il disco) e nessuno me ne voglia soprattutto… Lalli. La lunga sezione conclusiva che ripete per ben 22 volte la frase “happines is a warm mall” si conclude con la sola voce che fu dei Franti e dalla troppo trascurata carriera solista.
Supportata da un magnifico basso elettrico di Carlo Sciannameo conclude l’album dando saggio di cosa vuol dire autenticamente “essere un’interprete” e lo fa con un calore senza tempo pari ad un rasoio al velluto, di quelli consapevoli di ciò che Patty Smith e Marianne Faithfull rappresentano tutt’oggi, ma con un’eleganza e un’intimità solo “sua”.

Conclusioni:

La Chiamata è un album che ogni cultore della scena rock indipendente italiana dovrebbe ascoltare, ma è anche un disco da avere, non per feticismo ma perché solo ritrovandosi tra le mani tanta grazia ne si può cogliere l’essenza e gustarne l’assoluta eccezionalità. Quella di un disco pop-rock autenticamente esplosivo.
Perché? Semplice. Questo album ha un dono unico, quello di essere assolutamente immediato ma capace di sciorinare una tale quantità di riferimenti culturali da far rabbrividire. Riferimenti in grado di sposare quelle che si definivano “cultura alta” e “cultura bassa”. Difatti oggi la “cultura alta” la ricorda solo qualche vecchiardo e pochi “nerd”, la “cultura bassa” è appannaggio comune e ben venga che queste incisioni abbiano la capacità di ammaliare congiungendo ambedue i percorsi. La Chiamata è cultura underground (sonica, teatrale, letteraria, visiva) per antonomasia ma tale da poter giungere ai Media, ammesso che la band lo desideri. In questo disco si palesano tutti gli elementi che hanno fatto importante la cultura “altra” italiana dagli anni 80 in poi e al tempo stesso pone prospettive autenticamente “vive”. E’ come detto un’opera intermediale per la qualità e la varietà di input che offre, tale da “dovere e non poter diventare culto”.
Laddove io stesso ho tratto degli elementi che di primo impatto non mi hanno convinto (il canto che si fa personaggio impersonale del racconto attraverso una teatralità che travolge l’emozione e le linee melodiche dai tanti riferimenti culturali percepibili per ogni singolo tratto delle canzoni esposte, in modo post-post-moderno), dopo tanti ascolti sono arrivato a conclusioni opposte, non di gusto, ma di interesse autentico.
Non in ultimo, lo spirito della “collaborazione” in epoca di progressiva chiusura tra musicisti a definire percorsi individuali validi solo se supportati da etichette con importanti proventi economici sta portando ad un rapidissimo impoverimento di slancio creativo a favore di un professionismo di una noia mortale, cosa che appartiene ad ogni ambito musicale e in buona misura di tutti gli ambiti creativi. La band ha avuto invece la grazia di essere catalizzatrice di alcune delle più importanti realtà nazionali (e non solo) in ambito musicale per definire un affresco dalla guida solida ma dagli spunti di una pregevolezza assai rara, cosa che ha un valore umano ed è un segnale di speranza non solo per chi è creativo, ma per chiunque abbia il coraggio di ritenersi vivo. Infine, il progetto ha potenzialità live davvero notevoli, considerando la grande presenza scenica di Tilli oltre che le indiscutibili capacità dei musicisti coinvolti nel progetto. Non solo, la poetica esposta ha un valore sociale talmente tanto attuale da confermare come chi è autenticamente creativo ha capacità di vedere sviluppi che la quasi totalità di noialtri non ha lontanamente. Questo si può rendere con un’unica parola: “arte”. Ancora una volta i Deadburger ci hanno sorpreso, cambiando pelle. Elettrizzante, livida, lucidamente meditativa, impertinentemente rock, se “oltre” lo capiremo ma certamente questo disco ha un’urgenza d’essere e manifestarsi che non avrebbe avuto bisogno di alcun altro tempo per agire sulla nostra percezione e sulle nostre coscienze.

Deadburger - La Chiamata
Deadburger - La Chiamata

Deadburger

La Chiamata

Cd, 2020, Snowdonia

Brani:

  • 1) Onoda Hiroo
  • 2) Un Incendio Visto da Lontano
  • 3) La Chiamata
  • 4) Tryptich
  • 5) Tamburo Sei Pazzo
  • 6) Manifesto Cannibale
  • 7) Blu quasi Trasparente

Informazioni tratte dal disco

Formazione:
Vittorio Nistri (elettronica, tastiere, arrangiamenti, testi),
Simone Tilli (voce, chitarre, tromba),
Alessandro Casini (chitarra),
Carlo Sciannameo (basso)
con:
Batteria e percussioni: Zeno De Rossi, Cristiano Calcagnile, Bruno Dorella, Simone
Vassallo, Marco Zaninello, Silvio Brambilla, Lorenzo Moretto, Pino Gulli, Alfio Antico
(tamburo)
Fiati: Enrico Gabrielli, Edoardo Marraffa
Voci: Alfio Antico, Lalli, Cinzia la Fauci, Davide Riccio
Contrabbasso: Silvia Bolognesi

Il miglior prezzo: